No, l’inglese “lingua franca del mondo” non è gratis. Se dobbiamo tenercelo, possiamo renderlo più equo?

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Per secoli l’uomo ha sognato di superare le barriere linguistiche, spinto forse dal racconto biblico di Babele, dove la diversità linguistica era una punizione divina che condannava gli esseri umani a non capirsi più tra loro. Se nella Storia ciascun impero ha imposto la propria lingua ai territori assoggettati, nel mondo globalizzato di oggi siamo forse più vicini che mai ad avere una lingua mondiale. Non si tratta però di una antica e neutra lingua morta come poteva essere il latino, usato dai dotti di tutto l’Occidente tra la fie del Medioevo e il XVII secolo, e nemmeno di una lingua neutrale artificiale come l’esperanto. Si tratta invece di una lingua naturale appartenente ad alcuni popoli, nei cosiddetti Paesi anglosassoni: l’inglese.

I principali Paesi di lingua inglese sono sei ricche e avanzate democrazie, che producono insieme il 33% della ricchezza mondiale: Australia, Canada, Irlanda, Nuova Zelanda, Regno Unito e soprattutto Stati Uniti, attualmente l’unica vera superpotenza del pianeta. La dissoluzione dell’Impero britannico inoltre ha lasciato l’inglese come seconda lingua in molti Paesi, in Africa e altrove.

Nonostante il sogno di Winston Churchill di dominare il mondo attraverso una lingua franca globale a base inglese si sia avverato, dato che oggi l’inglese è conosciuto da più di un miliardo di persone come lingua straniera ed è diffuso quasi ovunque negli affari, nella scienza e nell’alta formazione, i suoi madrelingua rappresentano solo il 5% della popolazione mondiale. In altri termini, il 95% degli esseri umani (7 miliardi e mezzo su 8) non ha l’inglese come lingua madre.

Eppure i non madrelingua, la quasi totalità dei popoli del mondo, sostengono di tasca propria l’affermarsi dell’inglese globale. Il suo successo, infatti, si deve anche al fatto che da almeno 30 anni tutti i Paesi dell’Unione europea e molti altri nel mondo, insegnano obbligatoriamente l’inglese nei propri sistemi scolastici. Naturalmente pagandone i costi. Quando cominciai le scuole medie, nel 1993, in Italia si poteva scegliere la lingua straniera: inglese o francese. Già all’epoca la maggioranza sceglieva l’inglese, che andava imponendosi come superlingua globale. Pochi anni dopo non c’era più scelta: una sola lingua straniera, l’inglese.

Se obblighi tutti gli studenti a imparare a una lingua, nel giro di una generazione quella lingua sarà automaticamente lo strumento preferito da giovani e adulti di Paesi diversi per comunicare tra loro. Niente di strano, si tratta di scelte e conseguenze. Ma il costo di insegnanti, libri, soggiorni studio e via dicendo non è da poco. François Grin, dell’Università di Ginevra, nel noto “Rapporto Grin”, stima che i Paesi dell’Europa occidentale spendano tra il 5% e il 15% del loro bilancio per l’insegnamento delle lingue straniere. Nell’Ue la maggior parte di queste risorse è destinata all’insegnamento di un’unica lingua, l’inglese. Con l’ovvia eccezione dell’Irlanda, l’inglese come lingua straniera è insegnato nelle scuole di tutti gli Stati membri dell’UE, di solito come materia obbligatoria. Secondo i dati pubblicati dalla Commissione europea, circa l’84% degli alunni delle scuole primarie, il 98% di quelli delle scuole secondarie inferiori e l’88% di quelli delle scuole secondarie superiori lo studiano. La percentuale di studenti che studiano altre lingue nell’istruzione secondaria è molto più bassa, in media tra il 20% e il 30%.

Nei Paesi anglofoni, invece, l’insegnamento delle lingue straniere è da tempo in declino perché le nuove generazioni sentono meno la necessità di imparare le lingue altrui. Questa tendenza si traduce in un notevole risparmio per i sistemi educativi di quelle nazioni, che possono destinare questi fondi ad altri investimenti.

Dunque noi non-anglofoni spendiamo fior di quattrini – togliendoli così ad altre modalità di impiego – per imparare l’inglese, rendendolo sempre più diffuso, quindi più attraente e quindi indispensabile. Ma almeno abbiamo in cambio dei vantaggi in cambio?

Be’, certamente dal punto di vista pragmatico conoscere l’inglese permettere di comunicare rapidamente con una buona fetta di persone in tutto il mondo (per quando la conoscenza di questa lingua sia spesso bassa o mediocre in chi afferma di conoscerlo). Comodo per viaggiare, utile se non indispensabile per molte professioni e per chi si occupa di scienza.

Ma al tempo stesso, ci tiriamo anche la tipica “zappa sui piedi”. Infatti, nonostante l’inglese sia ormai una lingua globale, esso non è governato in modo globale. Come qualsiasi altro idioma, è dominato dai madrelingua. La lingua “la fanno i parlanti”, è vero. Ma sostanzialmente la fanno i parlanti madrelingua. Quindi noi subiamo una lingua che non contribuiamo più di tanto a forgiare.

Come se non bastasse, ci ostacoliamo da soli. Infatti, i quasi ogni contesto, di studio o di lavoro, si è più efficaci nella propria lingua madre. Imparare oppure esprimersi in una lingua straniera, per quanto bene la si conosca, è più difficoltoso. Prendiamo l’esempio della scienza, di cui parlammo su queste pagine.

L’inglese è spesso necessario per pubblicare su riviste internazionali e ottenere finanziamenti per la ricerca. Addirittura in Italia l’abbiamo reso obbligatorio per avere finanziamenti dallo Stato italiano per ricercatori italiani, attraverso l’esclusione della lingua italiana dai Prin e dal FIS. Geniale.

Come avevamo scritto qui su Italofonia, un gruppo guidato da Tatsuya Amano dell’Università del Queensland ha recentemente pubblicato uno studio su 900 ricercatori nel campo delle scienze ambientali che ha rivelato che i ricercatori non madrelingua necessitano del doppio del tempo necessario ai madrelingua per leggere, scrivere o revisionare pubblicazioni in inglese. Quando presentano un articolo per la pubblicazione, i non madrelingua hanno circa 2,5 volte più probabilità di veder rifiutato il proprio lavoro per motivi linguistici e 12,5 volte più probabilità di dover effettuare revisioni legate alla lingua. Motivi stilistici e sintattiic (che fanno la fortuna di traduttori e revisori madrelingua), non motivi legati al contenuto scientifico dei lavori. Quindi, anche a parità di competenze tecniche, i ricercatori non madrelingua potrebbero avere minori opportunità di carriera.

Nel campo dell’alta formazione e delle università, in Italia obblighiamo studenti italiani e professori italiani a svolgere interi corsi di laurea solo in inglese. Creando artificialmente una barriera in ingresso e un ostacolo alla qualità della didattica. Nel privato ma anche nel pubblico, come il caso del Politecnico di Milano è lì a dimostrare. Il tutto a spese nostre, dato che si usano soldi pubblici. Rendiamo lo studio più difficile ai nostri ragazzi, che si laureano sempre meno, rendiamo l’italiano meno attraente e non leghiamo al nostro Paese gli studenti stranieri che studiano in inglese in Italia per poi andarsene a lavorare altrove. Ancora una volta, geniale!

Di tutto questo parla diffusamente e bene – in inglese su The Guardian – il linguista italiano Michele Gazzola. Questo mio articolo in molte sue parti riassume pressappoco ciò che Gazzola esprime nel suo pezzo. Il tema è alto, importante e complesso. Spiace che nessuno in Italia raccolga lo spunto e ne parli pubblicamente. Forse il problema è che è scritto in inglese? Speriamo in questo caso che noi di Italofonia possiamo riuscire allora ad aprire qui un dibattito. Certo, magari con un livello un filo più alto della risposta di Beppe Severgnini a una lettrice che citava proprio Gazzola. Mi spiace davvero dover constatare che Severgnini – che stimo e per cui nutro simpatia a causa delle mie origini cremasche – abbia affrontato il tema con superficialità estrema. Dando l’impressione di non aver letto, o non aver capito, l’articolo sul Guardian. Snocciola una caterva di luoghi comuni, concludendo che non possiamo mica “sostituire l’inglese col norvegese” (lingua che la lettrice studia per diletto). Ma Gazzola non dice questo. Non è questo il punto.

Il punto è: proprio perché a quanto pare l’inglese come lingua franca del mondo dobbiamo tenercelo a lungo, e non ne abbiamo solo vantaggi ma anche tanti costi e svantaggi, è possibile renderlo più equo, ridefinendone i rapporti con le altre lingue?

Michele Gazzola tratteggia anche alcune possibili soluzioni che sono state poste sul tavolo per mitigare l’ingiustizia linguistica creata dal ruolo globale dell’inglese.

Philippe Van Parijs, dell’Università di Lovanio, ha proposto, in modo un po’ provocatorio, una tassa linguistica sui Paesi anglofoni per compensare i costi dell’insegnamento dell’inglese in altri Paesi. Si tratterebbe di istituire una tassa globale sui Paesi in cui la maggior parte della popolazione parla inglese come lingua madre e di distribuire i proventi ai Paesi in cui l’inglese viene insegnato nelle scuole come lingua straniera.

Si potrebbero prendere in considerazione altre forme di compensazione indiretta, ad esempio un parziale indebolimento dei diritti di proprietà industriale, come i brevetti. La durata massima della protezione legale dei brevetti è di 20 anni. Questa durata potrebbe essere ridotta di qualche anno quando le imprese con sede in un Paese anglofono registrano un brevetto in un Paese non anglofono. Ciò significherebbe che questi brevetti potrebbero essere sfruttati commercialmente senza licenza più rapidamente rispetto ai brevetti appartenenti a inventori con sede in altri Paesi. L’Organizzazione Mondiale della Proprietà Intellettuale potrebbe promuovere una riforma delle regole in questa direzione.

Altre proposte prevedono un uso più intensivo della traduzione automatica e dell’intelligenza artificiale nelle pubblicazioni scientifiche, con costi a carico dell’editore. Si potrebbero elaborare criteri che premino i ricercatori multilingue nelle richieste di finanziamento di progetti internazionali, sull’esempio delle politiche di promozione dell’uguaglianza di genere nel mondo accademico.

Naturalmente, il problema della giustizia linguistica non si limita all’inglese. Lo stesso problema si porrebbe se la lingua dominante della comunicazione globale fosse un’altra lingua naturale, come lo spagnolo, il cinese mandarino o il francese (ma non una lingua neutra come l’esperanto). Ma al momento l’inglese è la lingua internazionale predominante. E forse è giunto il tempo di trarne un bilancio oggettivo, senza dogmi e pregiudizi. E pensare anche a cosa davvero conviene a quel 95% di persone nel mondo per cui l’inglese resta una lingua straniera.

 

In copertina, foto di Sora Shimazaki da Pexels

 

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4 pensieri su “No, l’inglese “lingua franca del mondo” non è gratis. Se dobbiamo tenercelo, possiamo renderlo più equo?

  1. “Di tutto questo parla diffusamente e bene – in inglese su The Guardian – il linguista italiano Michele Gazzola”

    Male, promuovere un idea essendo incoerenti con la stessa e ovviamente Severgnini lo fa notare nella sua risposta.

    “Philippe Van Parijs, dell’Università di Lovanio, ha proposto, in modo un po’ provocatorio, una tassa linguistica sui Paesi anglofoni per compensare i costi dell’insegnamento dell’inglese in altri Paesi”

    Dubito che i paesi anglofoni avrebbero interesse a istituire questa tassa.

    A mio modo di vedere il cambiamento può venire solo da noi (di sicuro non dagli anglosassoni e probabilmente neanche dagli altri germanici) è necessario passare da una mentalità di sottomissione a una concezione che ponga enfasi sull’indipendenza e il multipolarismo, questo ovviamente ha implicazioni:
    -economiche: perché non esiste uno strumento europeo per i pagamenti con le carte di credito ? Perché usiamo solo servizi digitali americani, quando esistono alternative europee, locali o federate ?
    -culturali: perché guardiamo solo film di origine anglosassone ? Perché non stabiliamo un sistema di quote d’origine per la produzione cinematografica in modo che arrivino in Italia film spagnoli, francesi, tedeschi, russi, cinesi, giapponesi e così via, in forma massiva?
    -politiche: è normale avere delle basi militari USA sul proprio territorio ?

    Solo affrontando queste questioni si potrà finalmente uscire dall’anglocentrismo. Invece pretendere che la soluzione venga da chi è parte del problema è molto ingenuo.

  2. Purtroppo è andata così, visto il fallimento (decenni fa) di proporre l’esperanto come lingua globale, semplice, facile e non favorire nessuna nazione.
    Ma in Italia con gli italiani che si parli italiano!!!!
    lo schifo è che in Italia ormai si parla “itanglese” ovunque. Basta vedere tutti i giorni giornali e TV.
    Non solo, pare proprio istituzionalizzata la cosa: abbiamo il ministero del welfare, alle Camere dei deputati avvengono le question time, non si sente più ‘fine settimana’… ecc
    (un obbrobrio!).
    Fra un secolo (forse nemmeno) di questo passo l’italiano lo si studierà come oggi latino e greco.

  3. L’articolo è molto interessante ed evidenzia il costo economico e altri gravi problemi nascosti nell’uso e nella promozione dell’inglese. A parte la proposta poco praticabile di una tassa, basterebbe intanto ELIMINARE L’OBBLIGATORIETÀ SCOLASTICA dello studio dell’inglese, permettendo agli studenti e alle scuole (tra cui alcune sono private) libertà di scelta.

    — Nondimeno, secondo me l’autore ha mancato di poco un punto molto importante. —- Scrive: «Il 95% degli esseri umani (7 miliardi e mezzo su 8) non ha l’inglese come lingua madre» e anche: «[l’inglese] è conosciuto da più di un miliardo di persone come lingua straniera». —- La conseguenza matematica è che oltre 6 miliardi di persone (il 75%) non conosce l’inglese neppure come seconda lingua.

    — E dove vivono quei 6 miliardi? Non vivono forse in paesi in crescita economica e/o demografica più rapida dell’Europa? Paesi (dalla Cina ai paesi arabi, dalla Russia al Brasile) nei quali persino chi conosce l’inglese spesso non amano per niente USA e GB. E allora come si fa allora a ritenere tanto sicuro che l’inglese resterà a lungo la lingua franca internazionale?

    — Sarà lo spagnolo la lingua franca del futuro? Speriamo: perché per noi sarebbe molto più complicato se fosse invece il cinese. — Nelle ultime frasi l’autore sembra intravedere la soluzione più conveniente per tutti, nonché più equa: una lingua neutra come l’esperanto. Una soluzione che paradossalmente è sostenuta più dalla Cina (sia pure entro certi limiti) che dall’Europa, che ne sarebbe forse la maggiore beneficiaria.

  4. Vorrei fare dei commenti.
    Sono personalmente deluso da Servergnini per quanto riguarda la lingua. Severgnini ha un blog sul Corriere della Sera intitolato “Italians”. Anni fa gli ho chiesto perché il titolo non era “Italiani” e lui mi rispose che “Italians” era più inclusivo di “Italiani”! Rimasi di stucco e non credo devo dire perché.

    È vero che usare l’inglese non è gratis, ma non solo per quanto ci costa. Infatti, usando l’inglese elimina la possibilità di creare una industria fiorente e continua, cioè quella dei traduttori. Inoltre danneggia anche gli editori italiani perché la maggioranza dei testi inglesi che vengono usati nelle università italiane non sono certamente pubblicati da editori italiani, ma vengono importati. Anche se fossero stampati in Italia non sarebbe la stessa cosa. Le nazioni anglofone non impongono a nessuno, e certamente non a noi italiani, di usare l’inglese. Insisto che siamo noi a decidere di farlo, illudendoci che non abbiamo scelta e che siamo forzati a farlo. Ma questo non è altro che un altro esempio di autocolonizzazione.
    Sono un chimico in pensione, italiano ma negli USA dal 1958, dove ho fatto l’università. Allora studenti in chimica dovevano studiare il tedesco perché molti importanti libri/indici di chimica che venivano pubblicati ogni anni erano in tedesco. Oggi non più: i libri/indici sono stati tradotti in inglese e quelli nuovi sono in inglese. Perché in Italia non si fa la stessa cosa?

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