Il Polimi insegnerà l’italiano agli studenti stranieri per trattenerli dopo la laurea

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All’incirca cinque anni fa venne nell’azienda in cui lavoravo un giovane programmatore, etiope. Non era assunto direttamente, ma lavorava per noi attraverso una società esterna. Dopo aver iniziato gli studi di informatica in Etiopia, era arrivato a Torino con un programma di scambio con l’Italia, ed aveva vissuto per quattro anni nella città piemontese prima di trasferirsi da noi a Milano.

Ora, un ragazzo giovane, neolaureato, che ha vissuto e studiato per quattro anni in Italia, dovrebbe avere un buon livello d’italiano, no?

No. Capiva a stento la nostra lingua, e di fatto non la parlava. Si comunicava in inglese, ma la comunicazione comunque non era perfetta. Tutto questo per una corresponsabilità: da un lato lui si era “buttato” poco, convivendo e passando la maggior parte del tempo con connazionali, e dunque non obbligandosi a dover capire e parlare la lingua del posto. Dall’altro lato, l’università non l’aveva minimamente invogliato a farlo. A quanto mi disse, tutte le lezioni erano in inglese, come stabilito dal programma interuniversitario Italia-Etiopia, nessun corso di lingua italiana era stato predisposto, e i professori, quando lui tentava di fare domande nel suo italiano stentato, passavano subito all’inglese, forse per praticità.

Morale della favola… pur avendo ottime doti e capacità tecniche, dopo un paio di mesi venne mandato via e sostituito da un’altra persona. Non riusciva a partecipare alle riunioni, a collaborare con i colleghi (alcuni dei quali stranieri, come un programmatore turco, un afgano e una spagnola), non riusciva insomma a partecipare alla vita dell’azienda con la sua lingua “di lavoro”. Che, essendo l’azienda italiana, con sede in Italia, operante in Italia da persone che in Italia ci erano nate o ci abitavano, era – guarda un po’! – l’italiano.

Lui ha perso un’occasione di lavoro, l’azienda ha forse perso un talento. E potrebbe perderlo anche l’Italia, se questa persona decidesse che non ha i mezzi linguistici per restare a lavorare qui. Il tutto perché, dopo quattro anni nel nostro Paese, uno studente non era stato portato a conoscere e parlare la lingua locale. L’Università e il sistema-paese di cui essa fa parte gli avevano fatto credere di poter vivere in una “bolla” anglofona, che sarebbe stata sufficiente a farlo comunicare nella vita e nel lavoro. Questa è semplicemente una menzogna. Perché le lingue esistono. Su 7 miliardi di persone al mondo, 6 e mezzo non sono di madrelingua inglese. E, anche chi parla l’inglese come seconda lingua, non lo usa certo dove può utilizzare la propria lingua madre. E un dipendente, per quanto brillante, non può pretendere di obbligare un’intera azienda italiana (o spagnola, francese, brasiliana…) a parlare in inglese solo per poter comunicare con lui. Non funziona così.

Il punto è che l’Italia, nella sua smania di “internazionalizzazione” spicciola, non si è mai posta una domanda semplice: cosa vogliamo fare di tutti gli studenti stranieri che, usando i corsi in inglese come mezzo di attrazione, portiamo da noi? Dopo aver investito tempo, risorse, denaro su di loro, cosa ne facciamo? Li lasciamo andare a lavorare all’estero, portando con sé le competenze acquisite a Milano, Torino, Roma e negli altri atenei italiani? Il problema all’estero hanno iniziato a porselo, come vi raccontammo nel 2017, citando un contributo di Michele Gazzola al testo “L’italiano alla prova dell’internazionalizzazione” (ed. Guerini e Associati).

Nei Paesi Bassi, secondo i dati ufficiali del Ministero dell’Istruzione, solo il 27% degli studenti stranieri internazionali resta a lavorare nel Paese dopo aver ottenuto un diploma in inglese, mentre il 70% dichiara che avrebbe voluto restarci, ma ha rinunciato. Una delle ragioni che scoraggiano gli studenti stranieri a restare in Olanda è proprio la mancanza di competenze in lingua olandese. In Germania, un’indagine condotta nel 2014  su 302 studenti internazionali che hanno scelto programmi in cui l’insegnamento era erogato esclusivamente in inglese, mostra che il 76% degli intervistati sostiene che dovrebbe essere obbligatorio per gli studenti frequentare corsi di tedesco durante il periodo di studio, e il 62% è a favore di lezioni tenute anche in tedesco per favorire l’apprendimento della lingua locale. Solo il 34% degli intervistati è rimasto in Germania dopo la fine degli studi e chi ha lasciato il Paese ha indicato nella mancata conoscenza della lingua tedesca uno dei motivi principali.

Oggi, sul finire del 2021, persino il Politecnico di Milano ne ha preso atto! E ha deciso finalmente di agire. organizzando corsi di italiano per i propri studenti stranieri iscritti alle lauree di secondo livello così da prepararli per il mondo del lavoro, cercando quindi di non perdere le loro competenze dopo aver formato i giovani. Per questo l’ateneo – dopo una prova preliminare – permetterà agli studenti di partecipare ai corsi con insegnanti madrelingua e gli studenti non potranno laurearsi se non avranno superato l’esame finale.
Il programma di studio si propone come obiettivi il comprendere ed elaborare frasi ed espressioni di uso quotidiano per soddisfare bisogni primari, la socializzazione, per l’utilizzo della lingua in chiave sociale, per acquisire scioltezza in situazioni comunicative più elaborate e riuscire a usare la lingua in modo flessibile ed efficace per scopi professionali e accademici.

Attrarre talenti dall’estero e fare in modo che contribuiscano alla crescita del nostro Paese: questo è l’obiettivo – ha commentato Ferruccio Resta, Rettore del Politecnico di Milano -. Se l’inglese consente a tanti giovani di scegliere il Politecnico di Milano all’interno di un panorama globale altamente competitivo, l’insegnamento della lingua italiana diventa strategico nel trattenere chi si è formato nelle nostre aule e pone un limite alla continua migrazione di quanti, nonostante anni passati a Milano, continuano a sentirsi stranieri. In questo modo permettiamo a giovani e brillanti ingegneri, architetti e designer di inserirsi in contesti lavorativi locali, portando in dote la ricchezza di una mentalità cosmopolita. Consentiamo loro di radicarsi a livello sociale, condizione indispensabile – ha concluso – per condividere obiettivi di crescita e di sviluppo.

Io, insieme a tutta la redazione di Italofonia.info, saluto con piacere questa presa di coscienza da parte del Politecnico e del suo Rettore. Speriamo che questa apra la strada a una riflessione più seria anche sul fronte degli studenti italiani. Il “POLIMI” infatti, aveva tentato per anni, con lunghe battaglie legali a spese dello Stato (=a spese di noi cittadini) per tre gradi di giudizio, di eliminare completamente la nostra lingua da ogni suo corso di laurea specialistica e di dottorato. Dichiarando addirittura l’inglese “lingua ufficiale dell’ateneo”. E, pur avendo perso sempre, in ogni grado di giudizio, di fatto se ne è infischiato, dato che nel 2020, su 40 corsi, 27 erano esclusivamente in inglese.

Bene dunque aver capito che l’italiano può aiutare gli studenti stranieri a lavorare in Italia, ma… ce la potranno fare i nostri eroi a capire l’italiano può anche aiutare docenti e studenti italiani a insegnare e imparare meglio? Per poi, auspicabilmente, impiegare queste conoscenze per lavorare in Italia, anche facendo ricordo all’inglese o un’altra lingua per interagire con clienti, colleghi,  collaboratori, fornitori all’estero. Lo sapremo in una prossima puntata, che speriamo non tarderà ad arrivare.

 


Fonti: MilanoTodayCorriere.it
Copertina: foto da wikimedia

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