Università, nel 2026 alla Bocconi il 70% dei corsi sarà solo in inglese. Ma iscritti e laureati calano

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Qualche giorno fa, la prestigiosa università privata Bocconi di Milano ha inaugurato l’anno accademico con una cerimonia alla quale hanno presenziato, oltre al rettore Francesco Billari, anche ospiti importanti quali la direttrice generale dell’Organizzazione mondiale per il commercio, Ngozi Okonjo-Iweala.

Tra i dati snocciolati durante l’evento, non poteva mancare quello riguardante l’internazionalizzazione dell’ateneo, che oggi conta circa il 25% di studenti provenienti dall’estero e 424 professori di cui uno su quattro è internazionale. In Italia “internazionale” è sinonimo di inglese. La stessa cerimonia si è tenuta in gran parte in inglese, tra cui il discorso di Billari, visionabile qui al minuto 25:00 del video. Non stupisce dunque che tra i cavalli di battaglie dell’università milanese ci sia quello di aumentare ulteriormente il numero di corsi di laurea erogati esclusivamente in questa lingua. Nel giro di tre anni solo tre corsi su dieci saranno tenuti in italiano. «Dalle 32 classi in inglese sulle 53 totali — dice Billari — il prossimo anno accademico passeremo ad averne 40 su 54». Una volta superato il test di ammissione, i ragazzi potranno accedere a un piano personalizzato di lezioni di lingua online, quando non raggiungono il livello sufficiente per accedere ai corsi. E in proiezione, nell’anno accademico 2026-2027 la didattica in inglese rappresenterà il 73 per cento del totale.

Quindi gli studenti italiani saranno sempre più obbligati ad affrontare l’ostacolo di dover studiare in una lingua straniera (sì, l’inglese è una lingua straniera per il 95% degli esseri umani sul pianeta), mentre gli studenti stranieri che hanno studiato l’italiano saranno penalizzati rispetto a quelli che scelgono l’inglese. L’incentivo è a usare l’inglese, per i professori, che spesso hanno incentivi economici, per gli studenti italiani, che possono avere dei corsi di inglese per aiutarli a rinunciare alla propria lingua, e per quelli stranieri, che invece non hanno alcun aiuto per imparare italiano né possibilità di usarlo per studiare nel Paese.

La cosa curiosa è che, nella stessa cerimonia inaugurale, sono stati affrontati due temi caldi dell’università italiana: l’inclusione e la riduzione del numero di laureati italiani.

L’accesso all’università è sempre più difficoltoso, gli iscritti e gli studenti che giungono alla laurea sono sempre meno, e la risposta qual è? Obblighiamo tutti a studiare in inglese. Sommando così l’ostacolo linguistico a quelli di carattere economico, abitativo, formativo e via dicendo.

La cosa rasenta il ridicolo se prendiamo le parole del rettore della Bocconi riguardo la percentuale di laureati italiani: «Nel nostro Paese sono laureati meno del 30 per cento dei giovani fra i 25 e i 34 anni, una quota che nel confronto con altri Paesi dell’Ocse ci colloca tra la Costa Rica e il Messico». Lontanissimi dalla Corea del Sud dove i giovani laureati sono il 70 per cento, ha sottolineato il rettore, «ma anche da Paesi come la Francia, con il 50 per cento, o la Spagna». Perché parliamo di ridicolo? Perché siamo andati a sbirciare nei sistemi universitari dei Paesi citati da Billari, per capire se effettivamente l’insegnamento totale e obbligatorio in inglese sia la chiave che porta a percentuali di laureati così alte.

Partendo dalla Corea del Sud, abbiamo consultato i siti dei principali atenei del Paese e il portale “Persi in Corea”, gestito da italiani che vivono, studiano o lavorano a Seul e dintorni. Ciò che emerge è che in Corea poche università propongono corsi di laurea in inglese, la maggior parte di essi sono infatti coreano. Solo alcuni atenei, dunque, propongono corsi di laurea completamente in lingua inglese. Si tratta solitamente di lauree in Amministrazione aziendale (Business Administration) o in Studi internazionali (International Studies). A seconda dell’università ce ne saranno poi alcune che propongono più corsi in inglese di altre, ma la maggior parte sono sempre in coreano.

Più in dettaglio, i principali corsi in inglese disponibili sono:

Korea University
Propone il corso di International Studies completamente in inglese, mentre altre major (lauree principali), come per esempio Mass Comunication & Media nonostante siano principalmente in coreano hanno molte lezioni in inglese.

Università Yonsei
Nella sede di Incheon (poco meno di un ora da Seoul con il bus) propone corsi completamente in inglese in International Studies, economia, asian studies etcc. Sono programmi molto quotati ma parecchio costosi, circa 6.000.000 Won a semestre.

Università Sogang
Corso di laurea in “Korean studies” tenuto tutto in inglese.

Università Songkyunkwan
Corso di Global Business Administration in inglese.

Riassumendo, in Corea i corsi universitari in inglese si contano sulle dita di una mano, sono riservati agli studenti stranieri e non obbligano i coreani a studiare in una lingua straniera, e chi vuole imparare il coreano è incentivato e aiutato, per poter poi accedere ai percorsi universitari e al mercato del lavoro del Paese. Ricordiamo che la lingua coreana è parlata, escludendo la Corea del Nord, da circa 50 milioni di abitanti, e che il Sudcorea è un Paese economicamente avanzato, con grandi multinazionali che operano nel campo dell’industria automobilistica, della robotica, dell’elettronica e dell’informatica (Samsung, LG, Hyundai, Kia…). Tutto questo senza bisogno di rinunciare all’uso della propria lingua.

In Francia la situazione non è poi così dissimile. I corsi in inglese sono più numerosi e più diffusi, ma non stanno progressivamente sostituendo quelli in francese, anche perché il ruolo del francese e il “diritto alla propria lingua” dei cittadini francesi è sancito nella Costituzione e dalla cosiddetta “Legge Toubon” del 1994. Esistono, ma sono pensati per percorsi internazionali di alcune università, in ambiti circoscritti: Università di Lione, HEC, Scuola di business KEDGE. Institut Polytechnique de Paris, Scuola d’arte e cultura IESA, Università Dauphine di Parigi, Université de Paris 1 Panthéon-Sorbonne.

Inoltre è da notare come, dei circa 1000 corsi oggi disponibili in lingua inglese in Francia, 900 siano dei Master. Invece l’Italia ha già quasi completamente anglicizzato i master, i corsi di magistrale e di dottorato e sta cominciando – come annunciato dalla Bocconi – a convertire in inglese anche i corsi di laurea triennali. Inoltre in Francia non aiutano gli studenti a migliorare il proprio inglese, ma incentivano invece con corsi gratuiti gli studenti stranieri che vogliono imparare il francese, così che possano poi frequentare in quella lingua. Conoscere il francese amplierà significativamente le opzioni e la scelta dei corsi degli studenti internazionali.

Veniamo alla Spagna. Anche in questo caso i corsi in inglese esistono, ma ancora una volta sono limitati. Oltre a una panoramica generale, abbiamo scelto di approfondire il caso di un singolo ateneo, l’Università autonoma di Madrid (UAM), citata dal portale TopUniversities come prima nella classifica dei cinque migliori atenei di Spagna.

Abbiamo visitato la pagina del portale della UAM che riassume i corsi di laurea attivi in questo anno accademico, e filtrato poi i risultati per restringere l’elenco ai soli campi scientifico ed economico. Ossia le materie che, nella narrativa prevalente in Italia, “non ha senso fare in italiano”, perché la scienza, la tecnologia e l’economia sono globalizzate e parlano inglese.

Provate a scorrere le liste qui sotto e guardare la voce “idoma” sotto a ciascun corso, per trovare quanti sono i corsi con scritto solo “inglés”:

Se non ne avete trovato nessuno, non vi è sfuggito nulla, è corretto. Ci sono alcuni corsi in spagnolo OPPURE in inglese, altri in spagnolo ma alcuni esami in inglese, altri in spagnolo e francese perché legati ad accordi universitari con la Francia, mentre in altre pagine trovereste alcuni corsi disponibili anche in catalano (seppure ci si trovi a Madrid e non a Barcellona).

Inoltre, cliccando nel menù superiore sulla voce Internacional (no, non International), troviamo questa frase di presentazione al servizio (che invece ha un nome inglese) di studio internazionale della UAM:

Study Abroad at UAM (SAM) ofrece cursos y estancias académicas para estudiantes internacionales que desean mejorar su dominio de la lengua y cultura española o perfeccionar sus conocimientos del español a través de una variedad de cursos impartidos en español o en inglés.

También colabora con universidades e instituciones educativas de todo el mundo para organizar cursos a medida para estudiantes internacionales.

La prima cosa che viene detta è che l’università offre molte possibilità agli studenti stranieri di imparare o migliorare il proprio spagnolo. Come in Francia. Come in Corea. In Italia no.

In Italia, al massimo, gli atenei offrono i corsi di italiano alla fine del percorso di studi in inglese, come il Politecnico di Milano, che dopo aver lottato per anni per abolire l’italiano dalle proprie aule, si è infine accorto che gli studenti stranieri, privi della conoscenza della nostra lingua, optavano poi per abbandonare il Paese per l’impossibilità di integrarsi nel tessuto sociale e lavorativo italiano.

Chi negli scorsi anni, chi aveva investito molto sull’università in inglese – Olanda e Scandinavia in testa – sta rimettendo in discussione la validità di quelle decisioni. In Italia invece non c’è dibattito: l’inglese è un dogma e tutto ciò che è in inglese è sempre più valido, più moderno, più “internazionale”. Eppure l’ONU ribadisce di continuo il valore di un’istruzione impartita nella propria lingua madre. Una lingua come l’italiano, che vanta una tradizione di uso tecnico-scientifico risalente ai tempi di Galileo, viene improvvisamente messa da parte in favore di un sistema dell’alta formazione che pare ispirato a quello di una vecchia colonia britannica.

L’Italia non vuole una politica linguistica per l’italiano. Ma di fatto mette in pratica una politica contro di esso, a favore dell’inglese. Senza valutarne minimamente gli impatti sulla propria società, sulla preparazione degli studenti e la competitività del sistema-paese.

Gli studenti italiani rinunciano sempre di più all’università. Alcuni atenei si vedono costretti a riportare i corsi in italiano per mancanza di iscritti, come l’Università del Salento. Si teme che l’uso dell’italiano allontani gli studenti stranieri dall’Italia, mentre la ministra dell’università racconta che i sauditi chiedono, per i loro studenti in Italia, corsi in lingua italiana. Ma politica e rettori proseguono sulla propria strada.

E gli studenti cosa ne pensano? La decisione della Bocconi, sulla piattaforma Reddit, ha scatenato un dibattito interessante. Accanto a chi è a favore, in nome dell’apertura internazionale data dall’inglese, c’è chi nota i lati negativi.

Si sottolinea la necessità di semplificazione che l’uso di una lingua straniera impone. Si fa notare che l’inglese internazionale è un “globish”, un globalese che va bene per i convegni o gli articoli scientifici ma non per tenere un intero corso di laurea. Parole di buon senso da chi vive questa realtà quotidianamente. Ma parole che cadono nel vuoto.

Tutto ciò senza contare gli effetti che questo “demansionamento” dell’italiano ha sulla lingua stessa, sempre più priva di terminologia scientifica adeguata e di occasioni in cui impiegarla (convegni e riviste scientifiche in italiano).

Facciamo ancora una volta appello ai dirigenti universitari e politici: fermatevi a riflettere sulla strada che avete intrapreso. Perché a un certo punto del cammino sarà difficilissimo tornare indietro.

 

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3 pensieri su “Università, nel 2026 alla Bocconi il 70% dei corsi sarà solo in inglese. Ma iscritti e laureati calano

  1. Bravi! Tutto molto sensato. Non siamo però una colonia britannica, ma… statunitense.

    1. Certamente è l’angloamericano e le dinamiche dettate dalla politica e dalle aziende statunitensi a spingere l’inglese globale. E l’Italia è particolarmente predisposta ad assorbire e ad ampliare il fenomeno dall’interno. Ne parla un bel libro di Antonio Zoppetti: https://italofonia.info/gli-anglicismi-come-effetto-collaterale-della-globalizzazione-il-nuovo-libro-di-zoppetti/ La nostra frase nell’articolo invece semplicemente accostava l’immagine di un’università dove tutto si svolge in una lingua straniera “dominante” a quella di una colonnia britannica (africana? asiatica?) di fine ‘800. Così come diverse lingua africane sono diventate dei creoli con l’inglese che ricordano da vicino l’itanglese infarcito di anglicismi che si parla nelle nostre aziende, nelle università, e persino negli ambienti politici.

  2. Lamentarsi o fare appelli non servirà a niente. Questi sono servi convinti che puntano alla dissoluzione della nostra identità culturale della quale la lingua è la base essenziale, per diluirla poi dentro quella anglosassone considerata superiore (dalla loro testa bacata e/o corrotta).
    Bisognerebbe sensibilizzare studenti e relative famiglie a tutto questo e partire con denunce per interruzione od intralcio al diritto allo studio sancito dalla Costituzione. L’università pubblica è sostenuta dalle tasse dei cittadini ai quali per pagarle non è richiesto di conoscere l’inglese e che ha diritto quindi di usufruirne nella propria lingua. Chi vuole corsi in lingua straniera se li paghi di tasca sua. I rettori non possiedono le università, le dirigono solamente. I padroni siamo noi cittadini italiani e dobbiamo farci rispettare anzichè borbottare e subire passivamente.

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