No, la priorità di un politico non è perfezionare il proprio inglese. Nemmeno per parlare al telefono

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Tra ieri e oggi sui mezzi d’informazione italiani imperversano le critiche a Giorgia Meloni e all’ufficio di Palazzo Chigi colpevole di averle passato, senza troppi controlli, la telefonata del sedicente esponente dell’Unione Africana, poi rivelatosi un impostore russo. C’è chi ci ha scherzando, ricordando il film Totò Truffa o gli scherzi telefonici di Bart Simpson al barista Boe nella celebre serie animata, chi si è giustamente interrogato sull’efficacia dei protocolli di sicurezza in uso, chi ha analizzato la vicenda legandola ad altri episodi simili ai danni di politici di mezzo mondo, dagli Stati Uniti alla Spagna.

La cosa curiosa, e tutta italiana, è che non manca chi prende la palla al balzo e va ad indagare il livello d’inglese (lingua in cui si è svolta la conversazione) della presidente del consiglio.

Aldo Cazzullo, ieri ai microfoni di Otto e mezzo, su La7, si è stupito degli errori di Meloni “financo nell’inglese, che invece sembrava essere uno dei suoi pezzi forti”.
Oggi Il Fatto Quotidiano dedica all’inglese di Meloni addirittura un intero articolo. L’autrice, Gabriella Valentino, ex insegnante di inglese, segna con la penna rossa gli errori della presidente: “Durante la telefonata ha mostrato, oltre alla sua inflessione romana, scarsa conoscenza delle regole grammaticali e un lessico molto povero. I problemi sono “impossible”, quello dell’Unione Europea è uno “stupid way of thinking”. Sull’Ucraina ha “some ideas”, ma sta “waiting to the right moment”. L’impressione che si ha è quella di una conversazione superficiale e sconclusionata che si potrebbe ascoltare tra due amici in un bar. Impressione confermata quando arriva a chiedere “between you and me” (con risatina annessa) se, secondo il suo interlocutore, “what is happening in Niger” (riferendosi alcolpo di stato e sbagliandone la pronuncia) è “qualcosa contro la Francia?” (“something against France”, di nuovo sbagliando pronuncia). Spesso traduce dall’italiano “respond to the telephone”, “both the things”… Le frasi sono piatte e non connesse tra loro. Quando si avventura a usare qualche connettore testuale lo sbaglia. Ad esempio, usa “moreover” (inoltre) a sproposito e dice “instead” (invece) quando forse voleva “otherwise” (altrimenti). La povertà lessicale è evidente anche quando deve scegliere quale parola usare in unione con un’altra. Cioè non padroneggia quelle che sono dette tecnicamente “collocazioni”. In inglese (ma neppure in italiano) una legge non si “distrugge”: il verbo da usare è “break”.  ”
E ancora: “La sua difficoltà è evidente quando cerca la parolina, non la trova, si rivolge a qualcuno presente nella stanza con lei e chiede “Come si dice?” (lo aveva già fatto quando, cercando di rispondere alla domanda in inglese di un giornalista, si rivolse ai suo assistenti chiedendo “Come si dice blocco navale?”) “.

Ora, non so in quale mondo viva Gabriella Valentino, ma nel mondo reale, dell’inglese usato per turismo e per lavoro, l’inglese dei meeting nelle aziende, della call col team esteso di mezza Europa, il livello di Meloni è considerato medio-alto, e soprattutto assolutamente in linea per ciò che è il suo scopo: comunicare in modo semplice informazioni semplici. L’inglese “lingua del mondo” come lo si definisce solo in Italia, è in realtà un globalese che è conosciuto da circa un miliardo e mezzo di persone, di cui il 60% lo parla poco o male (poor/low proficiency, secondo i dati del rapporto EF 2022), e solo una minoranza a livello intermedio o avanzato. L’inglese “vero”, più ricercato, più elaborato, è esclusiva dei circa 400 milioni di madrelingua (5% della popolazione mondiale). La lingua inglese si evolve su impulso dei madrelingua, soprattutto statunitensi, non certo di chi nel mondo usa questa koiné a base inglese per scambiarsi informazioni di lavoro o ordinare un pasto. Questo è il progetto che Winston Churchil preconizzò nel lontano 1943, divenuto realtà. Certo, ha raggiunto l’obiettivo di fornire uno strumento di comunicazione mondiale, a scapito di iniziative come l’esperanto e le altre lingue ausiliarie proposte nei decenni, portando oggi vantaggi pratici a chi lo usa, ma anche enormi vantaggi economici e politici agli Stati Uniti. L’angloamericano, è sempre bene ricordarlo, non è una lingua neutrale.

Conoscere l’inglese oggi, a mio avviso, è utile per tutti, perché dà accesso a una larga fetta di sapere umano e permette di dialogare in moltissimi luoghi del mondo, e per molti è importantissimo per questioni di lavoro. Per alcuni perfino indispensabile. Ma non confondiamo il suo ruolo, non ci allarghiamo. Per la stragrande maggioranza dei parlanti di inglese L2 questa lingua resta uno strumento pratico, da conoscere al giusto livello necessario, né più né meno. Non interessa a nessuno – si fidi, Valentino – che l’interlocutore usi instead invece di otherwise, o che non usi esattamente la sfumatura di significato più adatta. L’inglese globale si parla soprattutto tra non madrelingua, ognuno dei quali infarcisce la frase con propri “falsi amici” e parole in lingua (ho sentito un bergamasco dire “Pota, we didn’t understand”, ve lo giuro). E anche quando si parla con madrelingua, non si discute di filosofia o massimi sistemi, basta capirsi. 

Invece in Italia siamo talmente ebbri di anglomania che non basta neanche più parlare inglese, si deve essere perfetti. Figurarsi chi invece non lo parla, come nel caso della vicepresidente della Spagna e ministra del Lavoro Yolanda Díaz, raccontato da Antonio Zoppetti sul suo blog. La ministra era impegnata in una conferenza stampa che si teneva a Madrid, nel suo Paese, quand’ecco che all’improvviso una giornalista straniera (presumibilmente anglofona) ha pensato bene di rivolgerle una domanda in inglese, e nella sua grande benevolenza, ha aggiunto che però avrebbe potuto rispondere in inglese ma anche in spagnolo: “Pero usted puede responder en inglés o en español.” La politica non ha compreso la domanda, si è guardata attorno spaesata alla ricerca di un traduttore, fino a che qualcuno in sala le ha riassunto sommariamente la questione, e la donna ha così potuto rispondere nella propria lingua.

Il video è stato ripreso dalla tv del Corriere con un taglio volto a ridicolizzare la Díaz e a presentare l’episodio come qualcosa di estremamente imbarazzante: “La vicepresidente della Spagna sembra non capire nulla quando le viene posta una domanda in inglese. L’imbarazzo durante una conferenza stampa tenutasi lunedì a Madrid.” I giornali hanno sguazzato nella vicenda, ponendo l’accento sul fatto che la ministra sarebbe rea di non conoscere la lingua di serie A che si vuole istituzionalizzare come la lingua dell’Europa e del mondo intero. Ed è rispuntata la solita tiritera che solleva una questione spinosa: “oggi come oggi” può un politico non sapere l’inglese? La risposta sottintesa – che serve a imporre le nuove regole – è “no”. Non sapere l’inglese è una vergogna ed è inaccettabile.

Questo tipo di informazione, più che raccontare la realtà la vuole ricostruire imponendo la propria visione neocolonialista e discriminatoria nei confronti delle altre lingue. La posta in gioco è quella di proclamare l’inglese non una lingua come le altre, ma farlo diventare un requisito culturale e un’abilità di base per tutti. Una visione che però non mi convince per niente. 

Personalmente, credo che per un politico che ha relazioni internazionali, come i capi di governo, sia importante conoscere l’inglese e, perché no, altre lingue. Meloni, non per prenderne le difese, parla anche un discreto francese e un buono spagnolo. Questo le permette di potersi interfacciare direttamente con i propri pari di altri Paesi, a livello informale, e creare relazioni interpersonali che possono essere utili. Lo stesso vale per gli uomini politici che parlano l’italiano, da Roberta Metsola a Edi Rama. Ma la priorità di un politico non anglofono non è padroneggiare l’inglese come fosse la propria lingua madre. La priorità, invece, è far bene il proprio lavoro, documentarsi, studiare, elaborare soluzioni, confrontarsi con i membri del proprio governo, con le altri parte politiche, argomentare nella lingua madre le proprie posizioni, spiegarle in modo trasparente ai cittadini, far valere sui tavoli internazionali, con l’aiuto di interpreti professionisti, le proprie ragioni. 

In Italia la conoscenza dell’inglese viene sbandierata come superiore a tutte le altre capacità personali. Ricordo un articolo di giornale di qualche anno fa che raccontava la carriera di una giovane italiana, arrivata ai vertici di una grossa azienda americana. Dal titolo e dal testo, emergeva come motivo principale il “buon inglese” che la donna era in grado di parlare. Possibile che si riduca tutto a questo? Gli anni di studio e di preparazione, la tenacia, il coraggio di trasferirsi all’estero, l’impegno sul lavoro per crescere e salire nella scala aziendale…? Niente, il successo è per il suo inglese. Punto. Così come Milano e Cortina si sono aggiudicate l’Olimpiade 2026 perché sul palco c’erano ragazze giovani che parlavano e scherzavano tra loro in inglese. Davvero? Pensa te, non credevo bastasse questo per convincere il CIO, in selezioni lunghe anni, in competizioni con città di tutto il globo, ad assegnarti i giochi olimpici. Ma non ci rendiamo conto di com’è svilente tutto questo?

Allora, più che “dedicarsi allo studio dell’inglese” quando “i suoi numerosi impegni” glielo consentiranno, mi sento di appoggiare il secondo consiglio di Gabriella Valentino a Giorgia Meloni: “si faccia accompagnare da un interprete.” Anche se, lo ribadisco, per conversare al telefono o nelle pause di una riunione, l’inglese sfoggiato dalla Presidente del Consiglio non ha nulla da invidiare a quello di molti suoi interlocutori. Compresi i “comici” russi autori dello “scherzo” telefonico.


Copertina: fotogramma da I Simpson

 

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