Non più solo università: aumentano le scuole superiori italiane che insegnano in inglese

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L’italiano viene progressivamente escluso dalle aule universitarie italiane, dove sempre più atenei stanno rimpiazzando sempre più corsi di laurea, offrendo per tutti gli studenti solo l’insegnamento in lingua inglese. Al Politecnico di Milano attualmente, su 46 corsi di laurea magistrale, 34 sono disponibili solo in inglese (9 in doppia lingua e 3 solo in italiano). Nonostante sentenze che hanno stabilito la “primazia dell’italiano” e l’impossibilità di escluderlo dall’alta formazione. Ma di fatto, è ciò che sta avvenendo. In Paesi con percentuali di laureati superiori a quelle italiane, non va affatto così.

Un fenomeno che però è meno sotto i riflettori è il progressivo eliminamento della nostra lingua anche dalle aule delle scuole secondarie d’Italia. Dalle scuole medie, con il cosiddetto CLIL, alcuni argomenti in specifiche materie vengono spiegati anche (o spesso, solo) in inglese: un anno si fa geo-english, dove per esempio l’Unione europea e le sue istituzioni si imparano solo in inglese, l’anno dopo math-english, e allora le equazioni o il triangolo isoscele vengono insegnati solo in lingua straniera. Lo stesso alle scuole superiori, dove stanno comparendo addirittura grammatiche di lingua italiana che fanno un continuo rimando alle regole dell’inglese, che diventa un metro di paragone.

Ma prendono sempre più piede in Italia anche scuole superiori statali in cui intere materie d’indirizzo vengono insegnate solo in lingua inglese. Questo è il caso dell’IIS Amedeo Avogadro di Torino, alla ribalta della cronaca pochi giorni fa per aver annunciato l’avvio di un percorso “bilingue” che segue il cosiddetto Metodo Cambridge. I percorsi di studio sono due: il liceo scientifico delle scienze applicate dove la biologia, la chimica, la fisica e l’informatica verranno insegnate in inglese; e l’indirizzo tecnico dove l’inglese sarà la lingua di apprendimento di informatica e fisica. Inoltre, l’insegnamento dell’inglese già previsto e obbligatorio verrà aumentato di due ore. L’introduzione di questo tipo di percorso all’istituto tecnico è una novità, il quarto caso in tutta Italia.

Ma cos’è il Metodo Cambridge?

Sul sito di un altro istituto che ha adottato il metodo, i Licei Opera Sant’Alessandro, leggiamo che si tratta di
“un percorso di eccellenza, riconosciuto dall’Università di Cambridge, diffuso in oltre 160 Paesi, che integra il valore della tradizione liceale con l’apprendimento di alcune discipline in lingua inglese, su programmi pensati per studenti di tutto il mondo”.

In particolare, le scuole che aderiscono al circuito delle International Cambridge Schools, adottano una certificazione elaborata dall’ateneo britannico che si chiama IGCSE (International General Certificate of Secondary Education), ovvero Certificato Generale di Educazione Secondaria Internazionale. Si tratta della versione del britannico GCSE con la I davanti, ossia pensato per studenti con madrelingua diversa dall’inglese.

Sostanzialmente alcune materie vengono insegnate in inglese secondo uno standard uniforme per tutti i Paesi, ed elaborato nel Regno Unito sul modello britannico. Un po’ come nelle scuole somale di epoca coloniale, dove si insegnava in italiano e si studiavano Dante, Manzoni e le province d’Italia, qui i programmi britannici e il loro approccio didattico vengono propugnati come “internazionali” e applicati ovunque. Non più un Impero fisico, quello britannico, ma un “impero della mente” anglofono come preconizzato da Winston Churchill ottant’anni fa.

La professoressa dell’Avogadro Elena Vietti, sostiene che il percorso adotterà una didattica “più anglosassone rispetto alla nostra: se tradizionalmente la scuola italiana è più teorica, mentre quella inglese più pratica, in questo indirizzo i due approcci si fondono. Si è capito che la via di mezzo è quella che funziona meglio”. Inoltre, aggiunge la docente, “farà da link alle materie che altrimenti i ragazzi percepiscono come disgiunte”. Fa notare però Antonio Zoppetti che “dietro la nostra “teoria” c’è – o forse c’era – un ben diverso criterio che tende a considerare le cose da un punto di vista storico e anche critico, che è molto distante da quello per esempio tipicamente americano che in nome di questo scellerato “problem solving”, già introdotto a forza nelle scuole come criterio di valutazione degli studenti, si limita il più delle volte a fornire nozioni non sottoposte ad analisi critiche né storicizzate. E in questo passaggio a un sistema “misto” (dove però c’è solo la lingua inglese) l’inglese farà da “link” alle materie”, come se questo collegamento non si possa fare nella nostra lingua nativa”.

Naturalmente l’attivazione di questi percorsi ha un costo, sostenuto dallo stato italiano, e dunque dalle tasse di tutti i cittadini. E quali benefici porterà? A detta della preside e dei docenti dell’Avogadro, “alla fine del percorso, i ragazzi potranno ottenere le certificazioni IGCSE, che offriranno loro maggiori possibilità di essere ammessi in università italiane ed estere”. Quindi la certificazione gestita centralmente dal Regno Unito influirà sull’ingresso – o meno – di uno studente italiano in un’università italiana, oppure favorirà la sua scelta di abbandonare l’Italia. Per studiare ma poi anche per lavorare. Non ne fa mistero la preside Anna Luisa Chiappetta: “I nostri studenti sono molto richiesti nel mondo del lavoro e con i docenti ci siamo resi conto che un percorso simile agevolerebbe i tanti che scelgono di andare all’estero”.

Quindi sostanzialmente lo stato italiano paga per aiutare i giovani migliori ad andarsene all’estero, dove porteranno il frutto della formazione finanziata coi soldi dei cittadini italiani. Intanto i Paesi anglosassoni risparmiano milioni di euro abolendo l’insegnamento delle lingue straniere e hanno benefici diretti dall’essere madrelingua della lingua franca mondiale della scienza e del commercio. Ma in Italia di tutto questo non si discute razionalmente, a differenza che nei Paesi scandinavi che tra i primi introdussero questi modelli di anglificazione dell’insegnamento.

In Italia i giornali presentano questa rinuncia all’italiano come “il futuro”, forti del fatto che l’inglese è “la lingua del mondo”. Senza negare il ruolo dell’inglese nel mondo di oggi, non è così ovunque. Per esempio, tra 160 Paesi in cui le scuole internazionali della Cambridge sono presenti, come sono distribuite?

Guardando l’apposita sezione sul loro sito possiamo dare un’occhiata ai principali Paesi europei.

In Francia ne troviamo 37:

In Germania solo 33:

In Spagna decisamente di più, sopra il centinaio:

E in Italia?

In Italia sono 382.

 

Siamo più “internazionali”? Stando ai risultati delle nostre aziende all’estero e sull’attrattività del nostro mercato per i capitali stranieri, no. Questa autocolonizzazione culturale e formativa è solo un ostacolo alla qualità didattica, o al più un incentivo ulteriore alla cosiddetta “fuga dei cervelli” causata da altri fattori.

Se guardiamo all’equivalenza e al riconoscimento della certificazione IGCSE Cambridge, troviamo che essa ha un valore solo in cinque Paesi al di fuori degl Regno Unito: Stati Uniti (anche se quasi nulla rispetto agli standard nazionali usati da quasi tutte le scuole), Hong Kong (protettorato britannico fino al 1997), Singapore, Malesia e… Italia.

Nessun Paese avanzato rinuncia alla propria lingua e al proprio sistema educativo quanto l’Italia.  E nessuno vede la rinuncia alla propria lingua come requisito necessario alla costruzione di società più aperte, internazionali e collaborative. Eppure si fa sempre più largo l’idea di una Unione europea che debba avere una (e una sola, a quanto pare) lingua comune: l’inglese.

Pochissimi giorni fa Beppe Grillo, noto in Italia per aver dato vita al Movimento 5 Stelle, ad oggi terza forza politica del Paese, aveva parlato proprio di questo: “Essere europei cosa significa? […] Bisognerebbe avere una lingua in comune. Ora, l’Inghilterra è andata via dall’Europa. Benissimo, assumiamo nelle scuole dell’obbligo finanziate dall’Europa, finanziate dal debito europeo, l’inglese come prima lingua europea in comune”.

Questa sarebbe secondo Grillo una “idea da portare in Europa”. Idea al dire il vero espressa in modo molto confuso, ma che riassumiamo come l’inglese lingua europea comune. Europa, o meglio Ue, che però ha come motto “Unita nella diversità”. Una diversità che certo non verrà preservata e valorizzata trasformando i sistemi educativi nazionali impiantando scuole coloniali che costringono i ragazzi e le ragazze dell’Unione (al 95% non di madrelingua inglese) a studiare in questa lingua straniera. Per quanto importante, l’inglese non può diventare l’unica competenza, che fa passare in secondo piano tutte le altre.

L’inglese non sia più un dogma e si torni a parlarne con razionalità e lungimiranza. Soprattutto quando ci sono di mezzo il futuro di un Paese e tanti soldi pubblici.

In copertina: immagine IA generata con DALL-E 2

 

 

 


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