Inverno demografico e nichilismo culturale: la sfiducia degli italiani in se stessi

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Oggi ricorre la Giornata mondiale delle Nazioni Unite per la famiglia, mentre ieri, 14 maggio, si sono tenuti a Roma gli Stati Generali della Natalità. Due eventi che hanno portato i riflettori sul tema del calo delle nascite in Italia e del relativo invecchiamento della popolazione, fenomeno che viene da lontano ma che nel 2020 ha visto il record negativo assoluto dall’Unità d’Italia in termine di nuovi nati (404mila bambini venuti al mondo, 160mila in meno rispetto al 2008). Per fare un altro confronto, nel 1964 in Italia nacquero più di 1 milione di bimbi.

Perché affronto questo tema qui, sulle pagine di un portale che si occupa di lingua?

Il motivo sta in un libro che tratta in modo divulgativo proprio di demografia. Lo lessi appena uscito, nel gennaio 2019, perché aveva un titolo troppo bello per non comprarlo: Italiani poca gente, di Antonio Golini, edizioni LUISS. Questo volumetto racconta molto bene le dinamiche demografiche globali, anche in prospettiva storica, citando anche gli atteggiamenti che i demografi, i politici e le opinioni pubbliche dei Paesi occidentali ebbero nel tempo rispetto al tema della crescita e della decrescita delle popolazioni.

In particolare vorrei citare un episodio di cui l’autore, demografo egli stesso, fu protagonista nell’ottobre 1992. «Al sostanziale silenzio che negli anni ’80 avvolgeva il tema demografico, si affiancò nel tempo un arcigno negazionismo» spiega Golini, il quale, in qualità di direttore del centro ricerche demografiche del CNR, richiamò l’attenzione sul fatto che il numero di nascite pro capite del Paese era divenuto il più basso del mondo (1,27 figli a donna), con la conseguenza di un notevole aumento del numero degli anziani rispetto ai giovani. Questo poteva portare «all’insorgere di problemi di ogni genere se le politiche sociali dei governi» non si fossero adeguate.

Per questa affermazione giunsero a Golini accuse di fascismo. Infatti il regime guidato da Benito Mussolini aveva messo in atto politiche decise per favorire la crescita demografica italiana. Naturalmente con i mezzi e i metodi propri di un regime totalitario. Anche dopo la fine del regime «questa sovrapposizione quasi totale tra demografia e fascismo ha continuato a pesare, raggiungendo vette paradossali».

A questo punto forse iniziate a intuire un parallelismo con le tematiche care al nostro sito. Parlare di politica linguistica in Italia, così come parlare di incentivi alla natalità, risveglia ancora in molti gli spettri del fascismo. Lo sappiamo bene noi, che appoggiamo una legge dal basso per l’italiano. Quello della lingua fu infatti un altro campo in cui Mussolini intervenne, anche qui con metodi prescrittivi e repressivi, con traduzioni imposte ed elenchi di parole vietate.  Però, così come fortunatamente la politica fascista non è l’unica politica demografica possibile, neanche la sua politica linguistica è l’unica possibile. Esistono politiche a favore delle lingue locali e minoritarie, anche in Italia, e delle lingue nazionali, come per esempio in Francia o in Svizzera. Paesi senza dubbio democratici. Il punto è che per mettere in atto una politica linguistica bisogna prima comprenderne lo scopo. E questo mi porta a una seconda similitudine con il testo del nostro demografo.

Torniamo al 1992. Tra i critici di Golini ci fu anche il WWF italiano, che definì “assurda” la richiesta di “spronare i cittadini italiani a fare i più figli”, motivando questa affermazione con una dichiarazione del suo presidente: «Il nostro è un mondo spaventosamente affollato» e di conseguenza anche se la popolazione italiana diminuisse «non ci sembra affatto un problema grave».
Trovo illuminante il commento dell’autore a queste parole: «In realtà, sottesa a ragionamenti di questo tipo, c’era un’evidente forma di nichilismo culturale. Un Paese è fatto anche della sua cultura e la sua cultura è fatta di persone. È innegabile che se cala bruscamente il numero di persone che condivide una certa cultura, allora tenderà a svanire anche la cultura di quel popolo e di quel Paese. Qualcuno potrebbe dire: e chi se ne importa?». Golini coglie ancora nel segno. La mia impressione è che molti italiani oggi risponderebbero così. Insomma, non credo che la prospettiva di una progressiva scomparsa della cultura italiana dal pianeta susciterebbe grandi reazioni nella maggioranza dei miei concittadini. Ma altrove non è così. «D’altronde non è un caso se i nostri cugini francesi, gelosi custodi della loro lingua e della loro cultura, abbiano più a cuore la sorte demografica del proprio Paese».

Il punto, a mio avviso, è esattamente questo. Gli italiani non pensano che la loro lingua e la loro cultura debbano essere preservate perché probabilmente non pensano che abbiano un valore, né per se stessi né per il resto del mondo. Se tra 50 o 100 anni la lingua italiana non esisterà più, o si sarà trasformata in un ibrido con l’inglese completamente diverso da come lo conosciamo oggi, chi se ne importa. Se in Italia non si parlerà più italiano si parlerà un’altra lingua, tutto cambia ed evolve “naturalmente”.

Eppure, non vedo nulla di naturale nell’obbligare gli studenti italiani a seguire lezioni in inglese tenute da professori italiani nella aule di università italiane, forzandoli a porre domande, ricevere risposte, leggere libri di testo, sostenere gli esami totalmente ed esclusivamente in inglese. Questo è quanto il Politecnico di Milano sta facendo, seguito a ruota da altri atenei.
Non vedo nulla di naturale nell’obbligare un ricercatore italiano, di qualsiasi disciplina – anche umanistica – a scrivere in inglese la sua relazione se vuole vedere il suo progetto di rilevanza nazionale (nazionale) finanziato dallo Stato italiano.
Non vedo nulla di naturale nell’importare la parola “lockdown” (quando le persone sono già chiuse in casa da tre settimane) e imporlo come termine unico attraverso giornali, TV e Rete.
Sono queste le dinamiche che stanno facendo retrocedere l’italiano nei suoi ambiti d’uso storici e lo stanno, lentamente ma inesorabilmente, snaturando. E non sono dinamiche naturali. Sono scelte precise, che si inseriscono in un contesto globale di fronte al quale però altri Paesi e altre comunità di parlanti fanno scelte diverse. Perché comprendono che il plurilinguismo e il multiculturalismo sono un valore. Un valore che va difeso concretamente, non per chiudersi nel proprio orticello, ma portarne i frutti nel mondo. Perché sia un po’ più ricco.

 

Speriamo che dopo gli Stati Generali della Natalità, tornino anche gli Stati Generali della Lingua italiana. Perché tutti gli italiani possano capire che ci sono scelte individuali che incidono sulla collettività. Vale per la libera scelta di mettere al mondo un figlio. Vale per la libera scelta delle parole che usiamo e del futuro che immaginiamo per la nostra lingua.

 


Leggi diffondi e firma la proposta di legge dei cittadini per l’italiano


 

Foto in copertina di George Hodan

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