Solo in lingua originale? L’84% degli italiani preferisce il doppiaggio

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Il nuovo film di Miyazaki? Non vedo l’ora di vederlo! Rigorosamente in lingua originale con sottotitoli, o in inglese.

Questo commento, apparso in un gruppo sulle reti sociali, ben rappresenta due luoghi comuni piuttosto radicati in Italia: che debba essere sempre preferibile guardare film e serie televisive in lingua originale (spesso l’inglese, considerando l’esportazione di prodotti audiovisivi dagli Stati Uniti) e che questo inglese sia in qualche modo una lingua superiore, evidentemente preferibile a un doppiaggio in italiano.

Naturalmente non esiste alcun fondamento scientifico alla base di questi ragionamenti. Non si capisce per quale motivo un italofono dovrebbe preferire guardare un film d’animazione giapponese in lingua inglese invece che italiana. Quale sarebbe il valore aggiunto? E allo stesso modo non si capisce perché in modo assoluto debba essere meglio guardare la pellicola in una lingua che magari non si conosce, come il giapponese, e non nella propria lingua.

Intendiamoci, la sottotitolatura è un mezzo che permette di preservare la voce originale degli attori, può fornire una traduzione più vicina all’originale perché non deve rispettare il sincrono con il labiale, fornisce in qualche modo un prodotto più fedele a quello di partenza. Ma ciò non necessariamente significa trasmettere più fedelmente le emozioni che il regista vuole passare agli spettatori.

Il grande maestro del brivido Alfred Hitchcock, nel libro di François Truffaut “Il cinema secondo Hitchcock”, esprime così la propria opinione sull’argomento:

“Un film circola nel mondo intero. Esso perde il quindici per cento della sua forza quando è sottotitolato, il dieci per cento soltanto se è ben doppiato, mentre l’immagine rimane intatta anche se proiettata male. E’ il suo lavoro che viene mostrato, lei è al sicuro e si fa capire nello stesso modo in tutto il mondo.”

Il regista britannico parlava di “forza”. Il sottotitolaggio a suo avviso faceva perdere un po’ più di forza al film, rispetto a un doppiaggio ben fatto. Il motivo è che i sottotitoli non sono necessariamente più accurati solo perché non hanno limiti di tempo o di sincronizzazione labiale. Il fatto che i sottotitoli vengano letti e non ascoltati significa che molti aspetti della lingua parlata e del tono vengono persi e questi non possono necessariamente essere catturati ascoltando contemporaneamente una lingua per la quale non si ha orecchio. Una traduzione letterale accurata non è automaticamente la traduzione migliore poiché le parole esatte non sono sempre importanti quanto il messaggio e il tono. L’ironia, i doppi sensi, le parti più fini del linguaggio, sono difficilmente resi dal solo testo scritto. Oltre al fatto che la lettura del testo distrae dall’immagine, e che leggere un intero film è comunque impegnativo.

Ma veniamo all’aspetto forse più importante. La lingua madre non ha sul nostro cervello gli stessi effetti che ha l’ascolto di una lingua straniera, indipendentemente da quanto bene la conosciamo.

Un articolo sul blog dell’Università Vita e Salute San Raffaele di Milano, affrontando il tema del doppiaggio contrapposto all’audio originale, parla del cosiddetto “effetto lingua straniera” noto nelle neuroscienze:

Recenti studi provenienti dalle neuroscienze e dalla psicologia cognitiva hanno dimostrato che le emozioni vengono elaborate in modo più profondo quando sono espresse nella nostra lingua madre, a differenza delle decisioni più razionali, che vengono solitamente prese quando si utilizza una lingua straniera. Nella psicologia cognitiva questo fenomeno è noto come “effetto lingua straniera”.

Secondo eminenti psicologi, ascoltare una lingua straniera non interferisce con le nostre emozioni tanto quanto la lingua madre. La nostra lingua nativa ha infatti legami più stretti con le nostre emozioni, perché sono state create proprio in quella lingua.

 

Chi mastica un po’ d’inglese, provi ad ascoltare questa scena tratta dal celeberrimo “Blues Brothers”, in lingua originale:

John Belushi dice: “How much for the little girl? The women.. how much for the women?… I want to buy your women…” E ancora, alla fine, per convincere l’ex compagno a riunirsi alla banda, rincara la dose: “How much for your wife?!…”

Il dialogo non è difficile da capire per un madrelingua italiana che abbia una conoscenza base dell’inglese, e può essere apprezzato e magari strappare un sorriso.

Ora, però, ascoltate come viene reso in italiano. La scelta delle parole storpiate, il tono, l’effetto complessivo:

“Allora, quanto vuoi per tua moglia?!.. ahahahaha….” fa tutt’altro effetto nelle orecchie di un italiano madrelingua. Smuove corde diverse rispetto a un asciutto “How much for your wife”, non c’è nulla da fare.

Se dunque il prodotto sottotitolato in qualche modo può risultare più fedele, quello doppiato può invece essere più godibile, proprio perché gli adattatori, i dialoghisti, i direttori del doppiaggio e i singoli attori-doppiatori, sono professionisti che lavorano allo scopo di tradurre, trasportare nel modo più efficace possibile nella lingua di destinazione, non solo il messaggio ma anche le sensazioni che il regista voleva trasmettere.

Ma quali dei due approcci preferiscono gli italiani? Nonostante le piattaforme sociali e i forum di appassionati siano pieni di sostenitori del sottotitolo a ogni costo, un rapporto di Netflix del novembre 2022 forniva dati inequivocabili. Tra i vari Paesi in cui la piattaforma opera, l’Italia presenta il pubblico che più sceglie di vedere le serie e i film stranieri con doppiaggio in italiano. Ben l’84% degli utenti italiani di Netflix sceglie l’audio in italiano per le opere in altre lingue. Tra gli altri audio scelti dagli italiani troviamo, senza sorprese, l’inglese, seguito dal tedesco. Seconda in classifica la Germania con l’80% seguita da Spagna (79), Brasile (75), Messico (72), Cile e Colombia (71), Francia (70) e Argentina (67). Anche in Germania e Spagna al secondo posto troviamo l’audio in inglese, ma al terzo c’è invece l’italiano. Forse a causa della forte presenza di emigrati italiani in Germania e della somiglianza tra italiano e castigliano per quanto riguarda la Spagna.

Inoltre la lingua del doppiaggio, e della traduzione più in generale, rappresenta un interessante laboratorio linguistico che in alcuni casi ha dato un contributo al linguaggio comune. Pensiamo ad espressioni come “dacci un taglio“, “dammi il cinque“, oppure all’espressione “dolcetto o scherzetto“, creata artificialmente, ma che con la diffusione commerciale anche fuori dal mondo anglosassone della festa di Halloween ora è pronunciata ogni anno dai bambini italiani. Chissà, senza questa traduzione pronta, creata decenni fa e sedimentata nella mente di bambini poi divenuti genitori attraverso ore di lettura di fumetti e visione di cartoni animati, forse oggi i bimbi del Bel Paese direbbero “trick or treat” bussando alle porte dei vicini.

Il doppiaggio italiano ha ormai una lunga tradizione, e insieme a quella francese è tra le scuole più famose al mondo per la qualità del proprio lavoro. Il regista Tim Burton affermò che l’adattamento italiano del suo musical animato “Nightmare before Christmas”, con le canzoni interpretate da Renato Zero, era forse l’unico migliore dell’originale in inglese.

Naturalmente l’interferenza dell’inglese in italiano influenza anche il moderno doppiaggio nella nostra lingua, con sempre più termini non adattati che rimangono nella versione italiana. In parte semplicemente perché l’adozione massiccia di anglicismi “crudi” sta facendo sempre più spesso mancare le parole alla nostra lingua, e dunque l’anglicismo è il termine corrente che anche il dialoghista non può che scegliere. In altri casi, però, si sentono nel doppiaggio italiano termini per nulla diffusi, per esempio in una recente serie Netflix dedicata a Spotify, troviamo nell’audio italiano il termine “codewriter”, che in vece viene reso in spagnolo con codifigador e in francese programmeur. In italiano codewriter non si usa, i termini correnti sono programmatore, sviluppatore, e l’anglicismo developer.

Nonostante questo, riteniamo che la scuola italiana del doppiaggio, premiata e riconosciuta nel mondo, vada difesa proprio per la sua importantissima funzione di adattamento culturale e arricchimento linguistico, che può e deve svolgere.

Ciascuno resta naturalmente libero di guardare opere in lingua originale, per apprezzare la voce degli attori o per imparare meglio una lingua che si sta studiando (anche la diffusione dell’italiano in Albania ha avuto nella TV italiana visible dall’altra parte dell’Adriatico un prezioso alleato). Ma ci piacerebbe che la demonizzazione del doppiaggio e chi vuole usufruire di un prodotto doppiato cessasse. Così come il luogo comune secondo cui la scarsa conoscenza media dell’inglese in Italia sia dovuta all’esistenza del doppiaggio. Chi vuole vedere pellicole e serie in inglese oggi ha molti mezzi per farlo con semplicità, senza costi aggiuntivi. Ma se questo può essere un ausilio, non dobbiamo dimenticare che per imparare una lingua la prima cosa da fare è semplicemente studiarla con impegno. E nessuna scorciatoia può sostituire lo studio.


Copertina da projectnerd.it su licenza Creative Commons

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3 pensieri su “Solo in lingua originale? L’84% degli italiani preferisce il doppiaggio

  1. L’esempio di Miyazaki è fuorviante. Il commento non è una critica al doppiaggio in generale, ma al doppiaggio, o meglio all’adattamento dei dialoghi, dei precedenti film dello Studio Ghibli distribuiti da Lucky Red a cura di Gualtiero Cannarsi, che ha delle idee, diciamo, piuttosto eccentriche su come vadano tradotti i dialoghi dal giapponese all’italiano.

  2. A voler essere del tutto sinceri, però… l’utente citato all’inizio dell’articolo ha ragione su un fatto, ovvero che la visione d’un film è migliore in qualunque versione non sia stata adattata da Gualtiero Cannarsi. Tralasciando casi limite come il suo, vi ringrazio per quanto avete scritto e soprattutto per il saggio commento finale.

  3. Sono talmente in disaccordo con quest’articolo che non so neanche da dove cominciare!
    Diciamo per prima la cosa ovvia: Il valore della recitazione di un attore, quel che dà al personaggio, è basato sulle sue espressioni (del corpo,, del viso) ma anche m oltissimo sulla sua voce: il tono, il registro… Questo è gran parte della personalità dell’attore ma anche del personaggio.
    Come può un doppiatore, anche tra i più bravi, essere alla stessa altezza di un sommo attore? Ed anche se lo fosse, non ci sono tanti doppiatori quanti attori nel mondo, quindi immancabilmente si sente le stesse voci per attori diversi. Che monotonia!
    E tutto ciò a prescindere dal fatto che il doppiaggio talvolta obbliga chi adatta il testo a delle frasi molto poco naturali in italiano.

    Preferire un film giapponese in inglese, anche no. Ma nemmeno in italiano. In giapponese con i sottotitoli. Il loro modo di parlare fa parte della loro cultura, della loro mentalità.

    Un’opera doppiata è un’opera amputata da gran parte di quel che la rende autentica ed affascinante.

    Gli americani non amano i sottotitoli perché sono abituati a vedere sempre roba loro. Tanto che, quando un film ha successo in Europa, preferiscono ricreare una loro versione (Tre uomini e una culla, La famille Bélier ecc.). Gli italiani non sono abituati a leggere i sottotitoli con una parte del cervello, mentre guardano il video e ascoltano l’audio con un’altra parte del cervello. Però è solo questione di tempo. Si tratta solo di abituarsi, e mi creda, non è difficile.

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