Il corso in inglese ha sempre meno iscritti: l’Università del Salento torna all’italiano

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Un progressivo calo di iscrizioni ha portato lo scorso 26 gennaio il consiglio didattico di Ingegneria dell’informazione, che attiene al Dipartimento di Ingegneria dell’Innovazione dell’Università del Salento (Puglia), a decidere di riportare il corso di laurea magistrale di “Computer Engineering” (Ingegneria informatica) allo status di corso in lingua italiana, non più in inglese.

Ora, se l’Italia fosse un Paese normale, questo non farebbe notizia. Ma oggi, se un’università pubblica italiana decide di tenere un corso di laurea in italiano, in Italia, la cosa desta scandalo. E infatti, puntualissima, si è scatenata la polemica.

Il rettore, Fabio Pollice, è corso subito ai ripari, scusandosi (usare la propria lingua in Italia ormai è qualcosa di cui vergognarsi e scusarsi, a quanto pare) con le seguenti parole: “Una decisione che mi preoccupa, di cui comprendo però le motivazioni: stiamo lavorando per trasformare Lecce in una città universitaria internazionale, ma il Covid blocca l’arrivo di studenti stranieri. E gli studenti salentini conoscono poco l’inglese“. Apriti cielo, a protestare a questo punto sono gli studenti, attraverso la prima lista eletta nell’ateneo, l’Unione degli Universitari di Lecce (UDU), che definisce la decisione “un terribile passo indietro“. La motivazione, ancora una volta, è l’internazionalizzazione, affiancata addirittura dalla parola “inclusione”. Sì, perché a detta di questi rappresentanti studenteschi, le università italiane dovrebbero rinunciare a insegnare nella nostra lingua per non escludere gli studenti di altre parti del mondo: “L’Università riveste un ruolo sociale non solo in un contesto territoriale, ma anche internazionale e come tale, dovrebbe fornire a tutti gli studenti, a prescindere dalla propria provenienza geografica, gli strumenti necessari all’integrazione e alla propria crescita personale. Per i tanti che provengono da contesti territoriali difficili, come confermano i dati, proprio il nostro Ateneo potrebbe rappresentare un’ancora di salvezza e, più in generale, un ascensore sociale per un futuro più roseo” ha dichiarato Sabrina Loparco, responsabile settore didattica per Udu-Lecce.

In realtà è bene ricordare che il ruolo primario di un’università pubblica è proprio quello di diffondere la conoscenza e le competenze tra la popolazione del proprio territorio. Questo vale per le università pubbliche britanniche, francesi, spagnole, tedesche e di tanti altri Paesi e non si capisce perché non debba valere anche per quelle italiane: un ateneo finanziato con i soldi delle tasse di una nazione o di un territorio, deve per prima cosa portare beneficio alla popolazione di quel territorio. Questo beneficio può naturalmente anche passare dall’attrazione di giovani talentuosi provenienti da qualsiasi parte del mondo, sia ben chiaro. E a tale scopo può essere utile inserire nella strategia anche l’inglese. Anche, ma non solo. Un ruolo potrebbe essere giocato dalle lingue madri di questi studenti (perché parlando di area mediterranea ignorare l’arabo, per esempio) e naturalmente un ruolo deve giocarlo anche l’italiano. Già, perché al di là degli stereotipi, dei preconcetti e della facile equazione “internazionale = inglese”, il mondo è più complesso di così.

Varrebbe per esempio la pena di porsi almeno due domande: 1) Per quale motivo uno studente straniero sceglie di studiare in Italia e non altrove? Perché non esiste nel mondo un’altra università migliore di quella del Salento (o di Milano, o Torino o Roma) per diventare un ingegnere informatico? O forse chi sceglie proprio l’Italia è attratto dalla nostra cultura, o dalla prospettiva di lavorare in Italia (o con l’Italia)? Pensiamoci. E questo ci porta alla seconda domanda: 2) Cosa vogliamo fare di tutti gli studenti stranieri che, usando i corsi in inglese come mezzo di attrazione, portiamo da noi? Dopo aver investito tempo, risorse, denaro su di loro, cosa ne facciamo? Li lasciamo andare a lavorare all’estero, portando con sé le competenze acquisite negli atenei italiani? Il problema all’estero hanno iniziato a porselo, come vi raccontammo nel 2017, citando un contributo di Michele Gazzola al testo “L’italiano alla prova dell’internazionalizzazione” (ed. Guerini e Associati).

Nei Paesi Bassi, secondo i dati ufficiali del Ministero dell’Istruzione, solo il 27% degli studenti stranieri internazionali resta a lavorare nel Paese dopo aver ottenuto un diploma in inglese, mentre il 70% dichiara che avrebbe voluto restarci, ma ha rinunciato. Una delle ragioni che scoraggiano gli studenti stranieri a restare in Olanda è proprio la mancanza di competenze in lingua olandese. In Germania, un’indagine condotta nel 2014  su 302 studenti internazionali che hanno scelto programmi in cui l’insegnamento era erogato esclusivamente in inglese, mostra che il 76% degli intervistati sostiene che dovrebbe essere obbligatorio per gli studenti frequentare corsi di tedesco durante il periodo di studio, e il 62% è a favore di lezioni tenute anche in tedesco per favorire l’apprendimento della lingua locale. Solo il 34% degli intervistati è rimasto in Germania dopo la fine degli studi e chi ha lasciato il Paese ha indicato nella mancata conoscenza della lingua tedesca uno dei motivi principali. A questo proposito possiamo citare un caso concreto vissuto in prima persona da un nostro collaboratore, di cui parlammo in questo articolo.

Sul finire del 2021, persino il Politecnico di Milano ne ha preso atto. E ha deciso finalmente di agire. organizzando corsi di italiano per i propri studenti stranieri iscritti alle lauree di secondo livello così da prepararli per il mondo del lavoro, cercando quindi di non perdere le loro competenze dopo aver formato i giovani. Per questo l’ateneo – dopo una prova preliminare – permetterà agli studenti di partecipare ai corsi con insegnanti madrelingua e gli studenti non potranno laurearsi se non avranno superato l’esame finale.

Gli studenti dell’UDU – in quattro, davanti ai microfoni di TV Norba – dicono che l’italiano esclude. Esclude gli studenti “pachistani o cinesi” che non lo parlano (e pur volendo venire a studiare in Italia non vogliono neanche provare a impararlo?). Ma non sembra preoccuparli il fatto che anche l’inglese esclude. Esclude chi non lo parla e anche chi invece lo padroneggia, ma non a un livello sufficiente da frequentare un intero corso universitario. Dunque uno studente leccese dotato e meritevole, portato per l’informatica ma meno portato all’apprendimento delle lingue, secondo la loro logica sarebbe escluso dal corso in ingegneria informatica tenuto solo in inglese dall’ateneo della sua città, Ma questo va bene, questo è un atteggiamento inclusivo, aperto e internazionale.


Tutti si affrettano a dire che “non è vero che gli studenti salentini conoscono poco l’inglese”, ma cosa ci sarebbe di male in questo? O meglio, cosa c’è di male nel voler frequentare, in Italia, l’università in italiano? La lingua madre è lo strumento più adatto per apprendere nozioni e anche per insegnarle creando empatia con gli studenti, questo è ormai assodato. E allora non si capisce il motivo per il quale dovremmo porci ostacoli inutili. Forse il prossimo passo della strategia è obbligare gli studenti a frequentare le lezioni, oltre che in una lingua straniera, anche stando su un piede solo per migliorare l’equilibrio, o con il riscaldamento spento per abituarli a un’eventuale vita lavorativa in Norvegia o in Canada? Nella provincia autonoma di Bolzano gli studenti germanofoni possono frequentare l’università in tedesco, perché uno studente leccese non può frequentare i corsi in italiano? Il diritto allo studio nella propria lingua è uno dei diritti primari che si riconosce, per esempio, alle minoranze linguistiche, ma qui ora anche la maggioranza dovrebbe imporsi una lingua straniera anche quando il 99% degli studenti e dei docenti è di madrelingua italiana.

Invitiamo gli studenti dell’UDU e chi nell’ateneo si schiera contro questa decisione di semplice buon senso, a riflettere. Perché non basta parlare in inglese per essere internazionali e attrarre talenti dal resto del mondo. Non basta mettere dei 3 o degli scevà al posto delle vocali finali nei propri post su Facebook per essere inclusivi (a proposito, se l’articolo resta “i”, è comunque al maschile). Se davvero si vogliono spingere le materie STEM (non Steam, come scritto nel comunicato dell’UDU zeppo di errori di ortografia italiana), ovvero quelle tecnico-scientifiche, allora si devono eliminare gli ostacoli e non aggiungerne di nuovi. Ostacoli che non hanno nulla a che vedere con inclusione o apertura al mondo, ma solo con un complesso d’inferiorità culturale assurdo e tremendamente provinciale.

 


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