Attrarre studenti internazionali sì, ma… dopo?

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Pochi mesi fa si è conclusa, con una sentenza della Corte Costituzionale italiana, una vicenda iniziata nel 2013 con la decisione del Politecnico di Milano di abolire la lingua italiana da tutti i corsi di laurea magistrale e di dottoratto, in favore dell’inglese, proclamato anche “lingua ufficiale dell’ateneo”.

La Corte ha sentenziato che non è possibile ridurre l’italiano a un ruolo marginale, seppure sia legittimo predisporre insegnamenti anche in lingua inglese. Ma torniamo all’esigenza iniziale professata dal politecnico milanese: l’inglese per attrarre più studenti stranieri.

Dietro questo obiettivo però, ce n’è un altro molto più immediato e spicciolo. In due indagini condotte su circa 700 coordinatori di programmi universitari erogati esclusivamente in lingua inglese in Europa continentale, emerge che il 75% dei responsabili giustifica questa scelta col bisogno di “far emergere il proprio istituto in confronto agli altri istituti attivi nel paese”. Inoltre, la “percentuale di studenti stranieri sul totale degli iscritti” è uno degli indicatori usati in una delle graduatorie internazionali per università più diffuse e citate (il Times Higher Education – Thompson Reuters World University Ranking) dove conta per il 2% nel risultato finale in classifica.

La domanda che non ci si pone però è: che cosa fanno gli studenti stranieri al termine degli studi, dopo aver frequentato i corsi universitari esclusivamente in lingua inglese?

Cerchiamo di rispondere aiutandoci con qualche dato.

Nei Paesi Bassi, secondo i dati ufficiali del Ministero dell’Istruzione, solo il 27% degli studenti stranieri internazionali resta a lavorare nel Paese dopo aver ottenuto un diploma in inglese, mentre il 70% dichiara che avrebbe voluto restarci, ma ha rinunciato. Una delle ragioni che scoraggiano gli studenti stranieri a restare in Olanda è proprio la mancanza di competenze in lingua olandese.

In Germania, un’indagine condotta nel 2014  su 302 studenti internazionali che hanno scelto programmi in cui l’insegnamento era erogato esclusivamente in inglese, mostra che il 76% degli intervistati sostiene che dovrebbe essere obbligatorio per gli studenti frequentare corsi di tedesco durante il periodo di studio, e il 62% è a favore di lezioni tenute anche in tedesco per favorire l’apprendimento della lingua locale. Solo il 34% degli intervistati è rimasto in Germania dopo la fine degli studi e ha indicato nella mancata conoscenza della lingua tedesca uno dei motivi principali.

Il fine delle Università e del sistema-paese che le sostiene dovrebbe essere trattenere (e non solo attirare) studenti stranieri. Attrarre e trattenere nel tessuto produttivo e culturale locale talenti internazionali. Ma se non si presta attenzione allo sviluppo di adeguate competenze anche nella lingua locale si rischia paradossalmente di favorire la mobilità dei laureati formati nell’Europa continenetale verso i paesi angolofoni. I rendimenti degli investimenti pubblici in formazione ne risentirebbero negativamente. A chi conviene?

 

Articolo tratto dal contributo di Michele Gazzola in “L’italiano alla prova dell’internazionalizzazione”, ed. Guerini e Associati, 2017.

Foto copertina: Eurogates.nl


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