Difendiamo l’italiano dal pressappochismo

SOSTIENICI CON UNA PICCOLA DONAZIONE
Condividi questo articolo:

Nelle scorse settimane si è tornato parlare dell’abuso di anglicismi nella lingua italiana sui giornali e sulle reti sociali. A riportare i riflettori sul tema è stata la risposta di Vittorio Feltri alla lettera di un lettore della testata Il Giornale.
L’autore della lettera è Saverio Basile, a sua volta direttore di un piccolo quotidiano calabrese, il quale pone a Feltri una domanda riguardo la lettura del Giornale: “in questi ultimi giorni mi tocca chiedere aiuto per la traduzione (soprattutto nei titoli) di parole inglesi che a me che ho 85 anni fanno tanta rabbia come: Drag queen, Gender, fake, blitz, spread, nadef, baguette, boom, blog, guinness e perfino nello sport: «Il boom della Ryder Cup». Non crede che stiamo regalando l’Italia alla Gran Bretagna in fatto di lingua parlata e scritta?”

Naturalmente la domanda di Basile vale per qualsiasi testata giornalistica italiana, dove gli anglicismi abbondano, come ha dimostrato uno studio che abbiamo pubblicato lo scorso anno.

La posizione di Vittorio Feltri è chiara fin dal titolo della sua risposta: “Difendiamo l’italiano dagli anglicismi“.
Feltri comincia infatti confessando che egli stesso spesso ha difficoltà a comprendere molti anglicismi, perché a suo avviso sulla stampa si dà “per scontato che il pubblico di lettori nella sua globalità conosca quel determinato vocabolo, mentre esso è costituito soprattutto di gente adulta o anziana, alla quale certe espressioni in lingua inglese risultano ostiche. La lingua italiana andrebbe salvaguardata, conservata, essa è a rischio estinzione.”
A questo punto snocciola alcuni dati: “È un fatto che dal 2000 ad oggi il numero delle parole inglesi confluite nell’idioma italiano è aumentato del ben 773 per cento. Inoltre, sono quasi 9mila gli anglicismi presenti sul dizionario della Treccani. Continuando di questo passo potremmo arrivare al progressivo disuso e addirittura alla scomparsa di sostantivi, aggettivi, verbi, sostituiti da espressioni straniere. Cosa che potrebbe sul lungo periodo generare la morte della lingua nazionale.”

Poi la parte politica, dove si ricorda la “Proposta Rampelli“, la quale ad avviso di Feltri dimostra che “il partito Fratelli d’Italia, primo della maggioranza, condivide la necessità di proteggere l’italiano”.

Infine la promessa di un impegno concreto: “Il dominio della lingua inglese può contribuire ad annullare la nostra identità. E tu, caro Saverio, nonostante l’età, sei impegnato in una faticosa battaglia volta alla conservazione del nostro patrimonio linguistico, la nostra ricchezza, attraverso un lavoro certosino e pesante. E di questo ti sono molto grato. Per manifestarti la mia riconoscenza presterò la massima attenzione affinché su questo giornale si evitino, per quanto possibile, parole straniere e ne vanga fornito sempre, nel caso in cui se ne faccia ricorso, il corrispettivo in italiano”.

Ora vorrei fermarmi un istante per fare qualche considerazione sui concetti emersi da questo scambio epistolare. Prima, però, voglio ricordare che sia io, a livello personale, che Italofonia.info come testata e come associazione, riteniamo l’abuso di anglicismi e la progressiva esclusione dell’italiano da ambiti chiave come quello universitario e tecnico-scientifico un grave pericolo per la nostra identità, la nostra società e per la diversità linguistica più in generale. Condividiamo la necessità di una politica linguistica per la tutela e la promozione dell’italiano in Italia. A questi due temi abbiamo dedicato un rapporto curato da Antonio Zoppetti e un libro bianco che abbiamo inviato a suo tempo ad esponenti del governo italiano e dell’opposizione.

Ma proprio per questo è importante essere accurati e precisi quando si affrontano questi temi, senza cadere in luoghi comuni.

I dati riportati nell’articolo del Giornale, ripresi dal preambolo della proposta di legge di Fabio Rampelli, fanno riferimento a un aumento del 773% degli anglicismi in italiano dal 2000 ad oggi. Intanto andrebbe contestualizzato questo “oggi”, dato che Rampelli e altri hanno presentato al stessa proposta – quasi identica – per diversi anni. In realtà la fonte di questo aumento spropositato non è citata ma è  riconoscibile: non si tratta uno studio scientifico ma un comunicato stampa del 2009 di un’agenzia di traduzione non più esistente. Per alcuni anni aveva pubblicato statistiche sull’uso degli anglicismi, senza però mai specificare come erano state ricavate (riferimenti, composizione del corpus e metodologie usate). Il periodo di riferimento era dunque il 2000-2009. Secondo l’agenzia in questione, il numero di anglicismi è aumentato poi del 223% dal 2009 al 2010, di un ulteriore 343% dal 2011 al 2012 e quindi ancora del 440% tra il 2012 e il 2013. Ne parlò la terminologa Licia Corbolante sul suo blog, Terminologia etc. Percentuali poco chiare e molto poco credibili.

Su questo portale, nel minisito dedicato all’Itanglese e agli anglicismi, riportiamo i dati sulla presenza degli anglicismi nei dizionari e sulla carta stampata, completi di metodologia di raccolta del dato fornite dagli autori, Antonio Zoppetti e Peter Doubt, traduttore professionista di madrelingua inglese. Naturalmente i numeri da soli non bastano, ma è la frequenza, la rapidità di diffusione degli anglicismi che rendono preoccupante il fenomeno, e naturalmente la qualità delle nuove parole che introduciamo. Emblematico il caso di un articolo sulle finali dei Mondiali di pallavolo, dove non comparivano mai né la parola “finali” né “pallavolo”. Sostituite da due anglicismi: “final four” e “volley”. Percentualmente bassissimi in un intero articolo, ma di fatto le parole più importanti perché sono quelle che nella nostra lingua avrebbero espresso l’oggetto del testo. Essere rigorosi con i numeri e con i metodi utilizzati è fondamentale, altrimenti si offre il fianco e facili critiche di chi invece tende – in modo altrettanto poco motivato – a sottovalutare il fenomeno.

Riguardo l’impegno dell’attuale governo italiano verso il tema della lingua, nutriamo – purtroppo – seri dubbi.

Se è vero che l’on. Rampelli ha presentato la proposta di legge di cui sopra, è altrettanto vero che quella proposta è un copia-incolla da altre proposte fatte negli anni precedenti, con ben poche modifiche. Il testo non specifica che le ammende sono da intendersi solo per aziende pubbliche e private e solo in determinate circostanze, e questo ha generato la bufala del “divieto di usare parole straniere”. Noi di Italofonia abbiamo intervistato l’on. Rampelli poche settimane dopo lo scopo di questa polemica, e ha avuto modo di chiarire la propria posizione. Anche altre parti del testo di legge, tuttavia, risultano confusi: concordiamo con l’utilità di una commissione per coniare neologismi e adattamenti, meglio, si spera, del Gruppo Incipit della Crusca, ma mettere enti come la Rai e la Treccani assieme all’Accademia della Crusca dentro questo comitato suona davvero strano. Ancora una volta la mia impressione è quella di poca cura nella redazione di un testo che invece sembra più una “bandierina” politica per segnalare che quel partito si interessa alla lingua. Nessun cenno né apertura ad enti autorevoli, come la Crusca stessa, o a proposte dal basso, come quella sostenuta dagli Attivisti dell’italiano di Italofonia, di politiche linguistiche equilibrate. Nessun confronto è stato avviato, nessun tentativo reale di coinvolgere realtà esterne alla politica, né forze politiche di opposizione.

Lo stesso vale per la proposta Menia di inserimento dell’italiano in Costituzione. Il testo, un po’ scopiazzato dalla Costituzione spagnola, sancisce che l’italiano è la lingua ufficiale della Repubblica e i cittadini hanno il dovere di conoscerlo e il diritto di usarlo. Principio interessante, più che l’ufficialità in sé, di fatto già sancita dallo statuto autonomo della Provincia di Bolzano del 1972 e dalla legge sulle minoranze linguistiche del 1999. Eppure di questa proposta, come quella di legge ordinaria di Rampelli, si sono perse le tracce. Dopo una breve discussione di soli 10 minuti, non è stata più ricalendarizzata.

Proposte-bandiera presto abbandonate a sé stesse. Nel frattempo il governo di cui questi politici fanno parte ha coniato il “Ministero delle Imprese e del Made in Italy”, il “Liceo del Made in Italy”, la “Serie A Made in Italy” e nel suo programma dice di voler aumentare l’anglicizzazione delle università, contribuendo a marginalizzare ancora di più l’italiano. La presidente Meloni, dopo aver lanciato il nuovo anglicismo di moda, “underdog”, subito usato dalla stampa per la sua rivale Schlein (“la underdog di sinistra”) e di recente finito nel vocabolario Zanichelli 2024, sfoggia anglicismi spesso e volentieri. In contesti internazionali, dove anche parla in italiano, mostra di non essersi liberata di quel complesso d’inferiorità collettivo che ci fa preferire l’inglese. Al recentissimo vertice MED9 a Malta, mentre il presidente francese nel suo discorso in francese diceva MED Neuf e il ministro spagnolo, parlando spagnolo, MED Nueve, lei diceva, in italiano, MED Nine.

Il primo gesto politico forte in favore della lingua italiana sarebbe, molto semplicemente, usarla.
Possibilmente bene e ogni qualvolta sia possibile.

Venendo alla promessa di Vittorio Feltri di impegnarsi per evitare l’uso di parole straniere sul Giornale, non ne mettiamo in dubbio la buona fede, ma il compito sarà arduo:

Come abbiamo già detto, la questione riguarda tutte le testate, come ha dimostrato uno studio che abbiamo pubblicato lo scorso anno, che aveva saggiato prima il numero di anglicismi su Repubblica (e poi sul Corriere), confrontata con quotidiani francesi, spagnoli e tedeschi. E con il numero di italianismi su quotidiani britannici.

Se le riflessioni di molti “difensori dell’italiano”, anche se in buona fede, sono spesso piene di imprecisioni, le risposte dei negazionisti o di coloro che minimizzano il problema, sono altrettanto imprecise e sovente basate su bufale e luoghi comuni.

Voglio prendere ad esempio un pezzo apparso sul sito Insula Europea, in risposta proprio a quanto scriveva Feltri alla lettera del suo lettore.

L’autore, Giulio Vaccaro, docente di Storia della lingua italiana all’Università di Perugia, muove all’articolo del Giornale alcune delle medesime critiche che io ho esposto più sopra. A cominciare dall’insensatezza delle percentuali riportate nella legge e nell’articolo.
Peccato che sia lo stesso Vaccaro, poco dopo, a male interpretare altri dati, presi questa volta dal dizionario GRADIT del compianto Tullio De Mauro. “Se guardiamo al vocabolario di base, ovvero a quel nucleo di circa 7000 parole che qualunque italofono intende e che costituiscono il 98% di tutto ciò che quotidianamente diciamo e scriviamo, le parole inglesi sono appena 31: un numero assai inferiore quello dei francesismi (256) e pari a quello degli iberismi. Il campo di diffusione dell’inglese è, prevalentemente, quello del lessico tecnico (per esempio computer o hard disk) o di occasionalismi (per esempio sold out per ‘esaurito’) che, per quanto possano risultare fastidiosi, solo raramente arrivano ad acclimarsi nell’italiano, e mai in posizioni centrali del lessico.”

De Mauro però aveva sottovalutato che l’evoluzione della società avrebbe da lì a breve portato molti termini “tecnici” ad essere di uso comune. Mouse, computer e poi password, PIN, touch screen, sono termini tecnici informatici, ma pervadono la lingua di ogni giorno, così come lo spread non si limita alla cerchia degli economisti e così via. Inoltre, se è vero che gli occasionalismi esistono, molti termini invece si radicano (“sold out” oggi prevale a mani basse su “tutto esaurito”), oppure proliferano, secondo il meccanismo delle “catene di anglicismi” descritto da Antonio Zoppetti, divenendo “prestiti sterminatori” che eliminano ogni alternativa italiana. Il prefisso “baby” di babysitter ha dato origine ai babypensionati, le babygang e ora tutto ciò che riguarda giovanissimi si dice “baby.”; il suffisso sitter dà origine, per esempio a dogsitter e simili. Il long-covid di cui si parlava in pandemia, oggi ritorna sotto forma dell’ibrido long-raffreddore. No, non è uno scherzo.

Lo stesso De Mauro, in un articolo del luglio 2016 della rivista Internazionale, sosteneva che il morbus anglicus di cui parlava negli anni ’80 il linguista Arrigo Castellani, si era ormai trasformato in uno “tsunami anglicus”, con ondate continue e forti, cui il parlante italiano resisteva molto meno e molto peggio di quello ispanofono o francofono. Non solo e non tanto per il numero crescente, ma per altri fattori. Ecco le sue parole:

“L’ondata anglizzante in questi anni più recenti si segnala non per la percentuale di parole nel lessico, ma per altri aspetti relativi piuttosto all’uso: l’adozione di anglismi in locuzioni formali e ufficiali (education, jobs act, question time, spending review, spread, welfare e via governando); l’ampiezza dei campi semantici investiti dall’uso di anglismi, da quelli tecnico-scientifici alla politica, dallo sport alla quotidianità; e, infine, l’eccezionale frequenza con cui l’uso comune ricorre negli anni più recenti ad alcuni anglismi. Per stabilirlo possiamo riprendere un confronto già avviato in Storia linguistica dell’Italia repubblicana (1a ed., 2014, p.159). È il vocabolario di base dell’italiano redatto nel 1980 sulla scorta di testi (di complessive 500.000 occorrenze di parole) risalenti per lo più a testi scritti degli anni cinquanta e sessanta del novecento e la nuova versione o meglio il radicale rifacimento elaborato con Isabella Chiari su una massa di testi enormemente maggiore (18 milioni di occorrenze), anche trascritti dal parlato, risalenti ai nostri anni dieci. In ogni lingua, non solo in italiano, le poche migliaia di vocaboli del vocabolario di base hanno una frequenza incomparabilmente maggiore delle parole anche comuni e sono così frequenti da coprire oltre il 90 per cento di ciò che diciamo, scriviamo, ascoltiamo. Nel vocabolario di base italiano del 1980 figuravano solo pochi anglismi, bar, film, sport, tennis, tram, whisky. Oggi si affolla invece un ben più folto manipolo. Parole in gran parte già comuni, ma soltanto comuni intorno alla metà del novecento, salite ora di frequenza ed entrate quindi nelle fasce di più alto uso del vocabolario di base: ok e okay, design, copyright, designer, gay, sexy, band, slogan, hobby, test, quiz, brand, baby, bit, boss, box, detective, fax, fan, fiction, flash, global, gossip, home, jeans, killer, leader, link, live, look, marketing, menu, monitor, monitoring, network, news, offline, online, party, poker, pop, privacy, pub, pullman, record, rock, set, share, shopping, show, single, software, spot, stress, style, tag, team, top, tour, trend, weekend;
parole nuove (rispetto alle precedenti) o non ancora comuni, entrate ora nel vocabolario fondamentale: email, euro “moneta”, web, internet, post, digitale “numerico, discreto”, cliccare.”.

Dunque l’insigne linguista aveva colto che il fenomeno era cresciuto e mutato. Questo fa cadere le altre critiche a chi solleva il problema dell’eccesso di anglicismi. Infatti il fatto che riguardi solo il lessico (ma comincia a non essere più così) o che le percentuali rispetto all’intero corpus di parole del vocabolario italiano siano relativamente basse non sono più scuse che possano tenere.

Vaccaro poi parla dell’estero: “l’inglese è, effettivamente, ormai presente nel panorama linguistico mondiale, come lo sono stati per secoli il latino (più della metà del lessico inglese, per esempio, è costituita da latinismi, e molti che arrivano in Italia sono “latinismi di ritorno”, per esempio album per indicare una raccolta di canzoni) o il francese. Lo stesso Feltri, d’altronde, nel suo titolo «Difendiamo l’italiano dagli anglicismi» ricorre a un prestito inglese – anglicismi – e non al suo equivalente italiano anglismi”.
Anche qui, parecchia confusione. No, anglicismo non è un arriva in italiano dall’inglese ma, eventualmente, attraverso il francese, è attestato nei dizionari prima di “anglismo” e in ogni caso l’oggetto del contendere sono solo gli anglicismi non adattati. Cioè quelli presi così come sono e trasferiti dall’inglese all’italiano.

Non poteva mancare la solita tiritera sul fascismo: “Proprio i tentativi di politica linguistica realizzati durante il Ventennio dovrebbero consigliare una maggiore prudenza in qualunque intervento dirigistico in fatto di lingua: i casi francese e spagnolo, pure spesso additati, insistono infatti su realtà linguistiche ben più stabili di quella italiana, in cui di fatto una lingua comune si è imposta da circa mezzo secolo, e investono, comunque, la sola sfera pubblica, certamente non gli usi linguistici individuali o collettivi.”
Ora, della politica linguistica del fascismo abbiamo trattato ampiamente in un articolo dedicato, cui rimandiamo. Per quanto riguarda le politiche linguistiche del mondo francofono e ispanofono, non riguardano affatto solo la sfera pubblica. O per meglio dire, partono da quella che la linguistica ci insegna essere la sfera tipicamente più conservativa della lingua, l’ambito giuridico e amministrativo, ma crea adattamenti e neologismi che poi possono essere usati dai mezzi d’informazione e volendo dai singoli parlanti, che mediamente sono più sensibilizzati. Nel 2005 a Madrid i direttori dei principali quotidiani di lingua spagnola firmarono una dichiarazione dove si impegnavano a consultare il più possibile il prontuario per le alternative agli anglicismi, consapevoli del proprio ruolo nell’evoluzione della lingua spagnola. In Italia invece sono proprio giornalisti e politici a sfornare più anglicismi, spesso incomprensibili e sempre più spesso infilati in leggi ufficiali dello stato: jobs act, local tax, flat tax, stalking, catcalling e via dicendo. Si può approfondire a questa pagina.

Eppure, per Vaccaro, nulla di preoccupante: “Possiamo, però, trovare qualcosa di positivo nell’intervento di Feltri: è quello che Luca Serianni chiamava «il sentimento della lingua», ovvero il legame che gli italiani mostrano nei confronti della loro lingua, che si tramuta in inquietudine per le sue sorti o in fastidio per i suoi cattivi usi. Segno che l’italiano si difende bene da sé, semplicemente – come qualunque organismo vivente – muta.” Dimenticando però, che gli organismi viventi possono ammalarsi, peggiorare, e prematuramente scomparire. E l’italiano non è per niente in buona salute. E gli pseudoanglismi che il Financial Times ha ridicolizzato in un recentissimo articolo non sono affatto il segno di una lingua vitale, come sostiene Corbolante. Tutt’altro; è sintomo di una lingua sterile, incapace di esprimere il mondo con le proprie metafore e le proprie parole. A nessuno viene in mente di dire “light bulb” invece di lampadina perché è un’invenzione nata nel mondo anglosassone, eppure si dice così per tutto il mondo informatico. Nessuno dice che “tomato” è un internazionalismo perché quasi tutte le lingue europee usano quella parola, o parole simili… noi diciamo pomodoro e non ci crea particolari problemi. Qualcosa è mutato nella testa dei parlanti, ma non nasce spontaneamente, dal basso. Viene influenzato dall’alto, da una serie di fattori, dai centri della lingua più influenti. A meno che non si creda che la famosa “casalinga di Voghera” si sia inventata “lockdown” perché sentiva la necessità di quel termine per dire di essere confinata in casa.

Purtroppo si ragiona per luoghi comuni, anche quelli più frequenti, che da tempo sono stati sfatati.

No, l’italiano non va difeso dai suoi difensori. Va difeso dai luoghi comuni, le frasi fatte, le facili semplificazioni, dalla disinformazione. Insomma, dal pressappochismo.

 


Immagine di copertina: Foto di Armstrong Roberts/ClassicStock/Getty Images

 

SOSTIENICI CON UNA PICCOLA DONAZIONE
Condividi questo articolo:

Un pensiero su “Difendiamo l’italiano dal pressappochismo

  1. Argomento affascinante e che si presta a punti di vista molto diversi. Concordo che “è importante essere accurati e precisi“ e proprio per questo vorrei fare una precisazione a proposito di “gli pseudoanglismi che il Financial Times ha ridicolizzato in un recentissimo articolo non sono affatto il segno di una lingua vitale, come sostiene Corbolante“.

    L’articolo del FT non ridicolizza (né è “dissacrante” o “una feroce accusa” o peggio, come hanno scritto altri che forse non hanno familiarità con i registri dell’inglese e hanno frainteso il testo) ma è un pezzo brillante che osserva incuriosito e divertito. Ne sono una conferma i commenti all’articolo, molto apprezzato, e l’ammirazione di parecchi anglofoni per la creatività delle parole boomerissimo e cringiata.

    L’osservazione che ho fatto sulla VITALITÀ DELLA LINGUA fa riferimento specifico proprio ai meccanismi con cui si creano queste NEOFORMAZIONI IBRIDE: «Youth generate plenty of hybrids too, such as boomerata — things a baby boomer would do. Also in vogue is cringe, typically Italianized into cringiata — something creepy or awkward; cringissimo — the ultimate in cringe, and cringiometro — how you gauge cringiness. Purists may be appalled, but to Corbolante it’s linguistic dynamism. “Italian is a vital language,” she tells me. “We take foreign material and adapt it to our needs.” All right!».

    Queste considerazioni sulla vitalità dimostrata dalle NEOFORMAZIONI IBRIDE mi accomunano agli altri linguisti che studiano questi fenomeni: non va mai dimenticato che la lingua è un sistema multidimensionale e ci sono contesti informali e gergali in cui queste parole funzionano perfettamente.

    Come sa chi mi segue sul blog e sui social, non risparmio invece critiche, soprattutto nell’uso istituzionale, per gli anglicismi superflui e per gli pseudoanglicismi che etichetto come “inglese farlocco” – un nome che credo sia già di per sé piuttosto indicativo!

I commenti sono chiusi.