La politica linguistica del fascismo e la guerra ai barbarismi

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Nella ricorrenza dei 100 anni dalla Marcia su Roma, che segna l’inizio del regime totalitario fascista in Italia – con tutti i suoi crimini e le sue tragedie – noi della redazione di Italofonia.info vogliamo ripercorrere la politica linguistica che il regime di Mussolini portò avanti lungo il ventennio del proprio dominio sulla Penisola. Un atteggiamento verso la lingua che ancora oggi rappresenta uno dei principali argomenti di chi osteggia l’introduzione di una politica linguistica dello stato italiano a favore della propria lingua nazionale, politica che invece oggi esiste in molti Paesi democratici e che noi di Italofonia da sempre auspichiamo.

Riteniamo importante conoscere i fatti e rifletterci sopra, in modo che ognuno possa trarre le proprie conclusioni e fare gli opportuni paragoni e distinguo tra la politica fascista e una possibile futura politica linguistica dell’Italia dei giorni nostri.

Lo facciamo con l’articolo qui di seguito, realizzato con il materiale pubblicato da Antonio Zoppetti sul proprio blog “Diciamolo in italiano”.

 

Il contesto storico

Nei primi del Novecento le masse si esprimevano fondamentalmente in dialetto e i ceti popolari avevano una scarsa dimestichezza con la lingua nazionale dei giornali o dei libri. L’unificazione dell’italiano parlato è avvenuta in seguito, soprattutto con la radio, il cinema e poi la televisione. L’avvento del sonoro è arrivato in Italia durante il regime fascista, che lo ha cavalcato, governato e indirizzato all’interno di una più ampia politica linguistica totalitaria volta a imporre la lingua nazionale.

La lingua come strumento di coesione del popolo e l’ostilità per i dialetti

Il fascismo considerava la lingua come uno strumento fondamentale per la coesione del popolo e per la difesa del nazionalismo e tentò di controllarne e di regolamentarne esplicitamente l’uso. Così, insieme all’abolizione della stretta di mano sostituita con l’obbligo del saluto fascista, il regime impose l’utilizzo del voi al posto del lei, considerato un residuo del servilismo italiano nei confronti dell’invasore straniero.
Per questo, nonostante il diverso significato della parola, la rivista Lei si trasformò in Annabella, visto che il lei era stato abolito, ma per fortuna si poteva parlare ancora di Galileo Galilei e non di Galileo Galivoi, per riportare una battuta di Totò che gli valse una denuncia poi archiviata.

I provvedimenti per l’unificazione dell’italiano si concretizzarono anche attraverso la lotta ai dialetti, a cominciare dalla scuola.

La riforma scolastica di Giovanni Gentile, nel 1923, non era ostile al dialetto che era spesso la lingua dei maestri oltre che degli scolari. Persino i libri di testo delle elementari, gli Almanacchi, avevano le loro versioni regionali, ed erano affiancati dai libri che educavano alla traduzione dal dialetto in italiano.

Dal 1925 l’approccio cambiò completamente, il dialetto fu considerato sempre più come un ostacolo all’affermarsi della lingua nazionale, e fu estromesso dall’insegnamento, anche se in molti casi ciò venne disatteso per il semplice fatto che gli stessi maestri non padroneggiavano la lingua sovraregionale.

La nascita del sonoro e l’unificazione della dizione

Nel 1924 fu inaugurata la radio, che si diffuse con enorme popolarità contribuendo ad aumentare l’industria musicale dei 78 giri che veicolava, tra le altre cose, anche le canzoni in italiano. Dopo l’uscita del primo film sonoro, nel 1926, anche l’industria cinematografica si riorganizzò e mentre i grandi divi del muto si avviavano sul viale del tramonto, il linguaggio espressivo del cinema in pochi anni passò da quello sovranazionale e muto delle immagini che incantavano il pubblico dagli Stati Uniti sino all’Unione sovietica, a quello dell’audiovisivo, che richiedeva la comprensione dei dialoghi e il doppiaggio nelle varie lingue di ogni Paese.

Per la prima volta si poneva così il problema della pronuncia e della dizione, che doveva essere uguale per tutti e in qualche modo uniformata. Il governo intervenne anche su questo aspetto e a Roma – dove c’era la prima stazione radiofonica emittente e dove negli anni Trenta nacque Cinecittà – si formò la prima scuola di dizione. Attraverso il caratteristico stile pomposo e retorico dell’EIAR, l’ente radiofonico di Stato, e la tipica cadenza “eroica” dell’epoca “traboccante di romano orgoglio”, si impose perciò una pronuncia basata non più sulle regole del toscano, ma prevalentemente sul romano, che, in caso di difformità dettava legge, per precise disposizioni del regime (Roma caput mundi).

La più grande battaglia della politica linguistica fascista fu però la campagna contro i forestierismi.

La guerra ai barbarismi

Il protezionismo e la messa al bando di ogni parola straniera cominciarono nel 1923 con una tassa sulle insegne commerciali che, nel caso contenessero esotismi, veniva quadruplicata. Non era una novità, già nel 1874 era stata varata una legge simile, rimasta in vigore fino al 1910, ma l’intento di allora era quello di far cassa, non quello linguistico.

Il decreto fascista dell’11 febbraio 1923 era invece il segnale di un nuova e precisa svolta politica, che si appoggiava a una precedente diffusa ostilità verso il “barbaro dominio”, non solo linguistico, di matrice ottocentesca e risorgimentale. La propaganda incentrata sull’orgoglio nazionale e la mobilitazione dei glottologi o degli intellettuali del regime in nome dell’italianità e del patriottismo linguistico furono forse più potenti delle leggi, e il dibattito coinvolse molte riviste e molti letterati, con modalità che spesso erano intrise di xenofobia. Già dal 1926 apparvero sulla Nuova Antologia alcuni articoli in difesa della lingua nazionale che esortavano alla “bonifica linguistica”.

Nel 1931, la Scena illustrata di Firenze diede vita alla rubrica “Difendiamo la lingua italiana”; nel 1932, il giornale romano La Tribuna bandì un concorso a premi per scegliere il miglior modo di sostituire una cinquantina di termini stranieri con termini autarchici, e Paolo Monelli inaugurò la rubrica intitolata “Una parola al giorno” sul quotidiano torinese la Gazzetta del Popolo, culminata nel libro Barbaro dominio (1933), che si apriva con il motto: “A ognuno puzza questo barbaro dominio” preso da un’espressione di Machiavelli. Nella pubblicazione, che si inseriva nel filone delle simili opere ottocentesche, l’intento era quello di “ripulire il linguaggio dagli esotismi”.
La maggior parte delle parole condannate erano francesismi, semplicemente perché erano molto più diffusi, mentre tra le parole inglesi Monelli ammetteva solo alcuni termini come bar (e barista), perché entrato da più di una generazione, e poi sportjazzpic-nicsnobknock-outgimcanasex-appeal e girl ma solo per designare le ballerine del varietà. Combatteva invece film indicando pellicola (ammettendo però filmo e filmi, alla peggio) e respingeva termini come meeting e leader. Tra le parole condannate c’erano thrill invece di brivido, clown per pagliacciomatch per incontropartita o combattimento a seconda dei contesti, nurse per bambinaia o governante, e ancora football (calcio), stock (provvistaquantitàrimanenza o deposito), budget (bilancio), star (stella del cinema), toast (crostino), club (circolo), detective (investigatore), detector (rilevatore), game (giuoco), set (partita), bookmaker (allibratore), yacht (panfilo).

In questo clima Gabriele D’Annunzio, inventore di vari neologismi e di motti mussoliniani, intorno al 1936 creò la parola tramezzino come alternativa a sandwich, mentre il linguista Bruno Migliorini, fondatore nel 1939 della rivista Lingua nostra, propose con successo regista al posto del francese regisseur e autista per chaffeur e fu in prima linea nella guerra ai forestierismi appoggiando il regime.

Le censure del Minculpop e le liste della Reale Accademia d’Italia

Con la proclamazione dell’autarchia e la preparazione alla guerra di Etiopia, parlare l’idioma del nemico era considerato una sorta di alto tradimento. Nel 1937 il ministero della Stampa e della propaganda fu rifondato come ministero della Cultura popolare, più noto successivamente con l’abbreviazione dispregiativa di Minculpop, che nei confronti della stampa ebbe un’influenza decisamente più impositiva.

Nello stesso anno, la tassa sulle insegne del 1923 divenne di ben 25 volte superiore, obbligando tutti ad adeguarsi. Così, nel 1938 il Touring Club Italiano diventò la Consociazione Turistica Italiana e i magazzini Standard la Standa, mentre la squadra di calcio milanese Internazionale, oggi Inter, già dal 1928 aveva cambiato il nome in Ambrosiana, in parte per le riforme del calcio del 1926 che prevedevano varie fusioni societarie, e in parte perché un nome del genere non era gradito al regime.

Tutto si irrigidì con lo scoppio della Seconda guerra mondiale. La legge del 23 dicembre 1940 (n. 2042) vietò l’uso delle parole straniere nei documenti ufficiali, nelle affissioni pubblicitarie e nelle insegne dei negozi, pena un’ammenda fino a 5.000 lire e l’arresto fino a 6 mesi. Intanto la Reale Accademia d’Italia aveva inglobato l’Accademia dei Lincei, e fu incaricata di sorvegliare gli esotismi e di redigere un vocabolario della lingua italiana (affidato a Giulio Bertoni), visto che nel 1923 il ministro Gentile aveva sottratto questo ruolo storico all’Accademia della Crusca. Il primo volume (A-C) uscì nel 1941, ma fu anche l’ultimo, perché l’opera si interruppe con la caduta del fascismo. La commissione “per l’italianità della lingua” della Reale Accademia che si occupava di stilare le liste di parole vietate con l’indicazione dei traducenti fu invece attiva tra il 1940 e il 1942 con vari bollettini. La maggior parte dei termini erano francesi: hôtel fu rimpiazzato da albergogrand hôtel da albergo imperialegarage diventava autorimessa e hangar aviorimessa, il papillon farfallino o cravattino. Alla fine si contavano circa 1.500 parole sostituite da quelle italiane e, venendo agli anglicismi, bar fu sostituito con mescita o anche qui si bevedancing con sala danzedanzatoio o balleria e tra le altre parole bandite c’erano alcol (alcole), boy scout (giovane esploratore), cyclostile (ciclostilo), extra-strong (di uso cartario, extra-forte), film (pellicola), gangster (malfattore), pullman (torpedonecorrieraautocorriera), pullover (maglione), sandwich (tramezzino), smoking (giacca da sera), toast (pane tostato e pantosto). Tra i forestierismi ammessi c’erano invece parole usate anche negli scritti di regime come film (fino agli anni Trenta al femminile, “la film”), sport o camion, e anche nel dizionario della Reale Accademia si trovano alcuni forestierismi, per esempio clown, seppure distinto dal corsivo e affiancato dall’italiano pagliaccio.

Alcune corrispondenze che circolavano in quegli anni oggi ci appaiono davvero ridicole, come il volere ribattezzare l’insalata russa, patriotticamente, insalata tricolore. 

Cosa è rimasto della politica linguistica del fascismo?

Caduto il fascismo, nel doppiaggio cinematografico è rimasto in molti casi il voi anche negli anni Cinquanta (per es. in Vacanze romane di Roman Holiday, 1953: Audrey Hepburn e Gregory Peck non si danno del lei), per poi scomparire definitivamente (tranne in alcune varietà regionali del sud dove già era diffuso in precedenza). Ma la scuola della dizione si è sviluppata partendo dalle impostazioni nate con l’Eiar, improntate al fiorentino emendato dal romano.

Anche la scarsa considerazione dei dialetti, visti come un segno di ignoranza dell’italiano, si è protratta ben oltre il regime.

Quanto ai forestierismi, con la Liberazione si è aperto un nuovo portone, quello degli anglo-americanismi, che si erano affacciati già nel ventennio fascista. Con il crollo del regime, insieme all’arrivo dei soldati americani sono arrivate in Italia anche la loro lingua e la loro cultura che, proprio per reazione al fascismo, nei decenni successivi si sono identificate con la libertà e il sogno americano.

In molti hanno provato a chiedersi se la politica contro gli esotismi abbia funzionato e abbia prodotto dei risultati. Ma forse le risposte, e anche la domanda, hanno poco senso. Nel complesso non pare possibile affermare che abbia funzionato, come vorrebbe qualche nostalgico, ma non si può nemmeno dire che nulla abbia attecchito.

Di sicuro alcune proposte hanno avuto successo, e durante il fascismo si sono stabilizzate alcune parole come regista o autista, o gran parte della terminologia sportiva che a quei tempi era prevalentemente inglese, a cominciare da calcio (football), calcio di rigore (penalty), rete (goal italianizzato anche in gol), fuorigioco (offside) o angolo (corner), ma anche pallacanestro al posto di basket, benché oggi l’italiano stia di nuovo regredendo nell’ambito sportivo.

basket pallacanestro
Le frequenze di basket (pseudoanglicismo: in inglese è basketball) e pallacanestro.

Altri traducenti non hanno scalzato gli equivalenti inglesi, ma coesistono ancora oggi come sinonimie magari dalla frequenza più bassa, per esempio scarto (dribbling) o scatto (sprint). In molti altri casi i sostitutivi non hanno affatto funzionato, a volte non si sono imposti nemmeno durante il regime come mescita per barpallacorda o giuoco della racchetta (tennis), fiorellare (flirtare, neologismo di Panzini) o balleria o danzatoio (dancing). Altre volte hanno funzionato in epoca fascista per poi regredire successivamente (palla ovale/rugby).Le risposte sono complesse anche perché nel frattempo la lingua è evoluta e i significati sono mutati: il tramezzino di D’Annunzio come alternativa a sandwinch è diventato un ben preciso stuzzichino fatto con il pane in cassetta.

In sintesi, non c’è un criterio per stabilire se ciò che è accaduto è la conseguenza diretta della politica fascista o meno, e anche stilare gli elenchi dei sostitutivi per poi conteggiare ciò che è rimasto e ciò che è svanito non porterebbe a nulla. Molte alternative circolavano anche prima del fascismo, e secondo Riccardo Tesi soprattutto queste hanno poi avuto un seguito (Tesi, R., Storia dell’italiano, Zanichelli, 2005).

Di sicuro ha fallito il proibizionismo, come metodo. E la politica contro il barbaro dominio fatta con la repressione e la censura è oggi l’eredita più pesante del fascismo, dal punto di vista linguistico. Per reazione ha successivamente spalancato le porte ad accogliere le parole straniere forse con eccessiva indulgenza. E il risultato è che parlare di tutela dell’italiano è diventato un tabù. Nessuno ha da obiettare sulla difesa delle nostre eccellenze culturali, storiche, artistiche o gastronomiche, ma se lo stesso metro si applica alla lingua subito riemergono i fantasmi del passato e le resistenze. Come se l’unica politica linguistica possibile fosse quella del fascismo (un sentimento diffuso infatti anche in Germania dove, dopo Hitler, i discorsi che fanno appello all’identità nazionale, anche linguistica, richiamano un periodo da rimuovere).

Eppure, davanti all’anglicizzazione della nostra lingua è più che mai necessario tornare a parlare di politica linguistica e di tutela dell’italiano, lasciandoci alle spalle i proibizionismi, le purghe e i modelli repressivi. Dovremmo guardare a ciò che si fa in Francia, in Spagna, ma anche in Svizzera e in quasi tutti gli altri Paesi, dove si lavora per la promozione della lingua e per la circolazione delle alternative, esistenti o create dagli organi preposti, con uno spirito diverso. In questi paesi non ci sono liste di parole “vietate”, ma si promuovono elenchi di sostitutivi possibili, ed è la comunità dei parlanti a receperirli o meno, a seconda dei casi. Se ai tempi del fascismo la guerra ai barbarismi aveva una motivazione politica nazionalistica e di principio (non esisteva numericamente alcun pericolo di imbarbarimento linguisitico), oggi la moltiplicazione incontrollata delle parole inglesi sta snaturando il nostro lessico, e creare sostitutivi italiani sarebbe sano e auspicabile.

Opporsi al nuovo colonialismo culturale e linguistico che assomiglia sempre più alla “dittatura dell’inglese” non è da nostalgici né da “sovranisti”, è al contrario un atto di Resistenza, è la difesa del locale che rischia di soccombere davanti alla globalizzazione. Non è né di destra né di sinistra: dovrebbe essere un valore che appartiene a tutti.

Articolo di Antonio Zoppetti originariamente pubblicato sul suo blog personale.

In copertina: Marcia su Roma, foto da wikimedia

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