Rimini, all’università Economia del Turismo sarà solo in inglese. Gli albergatori: scelta sbagliata

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Non è più una novità. Le università italiane – comprese quelle pubbliche – stanno rapidamente eliminando la lingua italiana dalle proprie aule. Ne abbiamo parlato di recente riguardo i Politecnici di Milano e Torino e l’università privata Bocconi. Del resto l’italiano come lingua d’insegnamento comincia ad arretrare anche nelle scuole superiori, con i programmi solo in inglese di Cambridge e MIT.

Oggi parliamo della prestigiosa Università di Bologna, la più antica d’Europa, che non fa eccezione nel preferire l’inglese all’italiano. Forse per ritornare alle origini, a un’Europa dove lo studio e la conoscenza appartenevano alle élite ed erano trasmessi in una lingua alta e sconosciuta ai più (il latino, che perlomeno era una lingua neutrale contrariamente all’inglese oggi).

Nello specifico la scelta riguarda un corso tenuto presso la sede di Rimini, città della riviera romagnola votata da decenni al turismo nazionale e internazionale. Il corso in Economia del Turismo dal prossimo anno accademico si chiamerà “Economics of Tourism and Cities” e si terrà solo in lingua inglese. La versione in inglese in realtà già c’era, la novità è che si abolisce quella in italiano.

La novità è che questa volta a opporsi non siamo solo noi o l’Accademia della Crusca, ma è il mondo delle imprese. Delle imprese a cui quel corso di laurea dovrebbe fornire professionisti formati: le imprese del turismo e dell’accoglienza di quel territorio. Imprese che si batterono proprio per l’istituzione di un corso di laurea specifico per il proprio settore. La presidente dell’Associazione albergatori di Rimini, Patrizia Rinaldis, ha infatti preso una posizione netta contro la decisione dell’ateneo.

Intervistata dal quotidiano locale Il Resto del Carlino, Rinaldis dichiara che la scelta del solo inglese penalizzerà i ragazzi italiani, le cui competenze linguistiche in inglese sono spesso limitate. Noi aggiungiamo che lo stesso vale in realtà anche per gli studenti con ottime competenze d’inglese. Apprendere nella propria lingua madre – lo dicono le neuroscienze, la didattica e il buon senso – è più facile e più efficace che apprendere in una lingua straniera. Obbligare dei madrelingua italiani a studiare in inglese è porre un ostacolo in più, indipendentemente dal loro livello in quella lingua. Un ostacolo di cui andrebbe giustificato il motivo.

Ma la presidente degli albergatori riminesi sottolinea altri aspetti importanti. Per esempio che la scelta dell’ateneo bolognese potrebbe portare a una maggioranza di studenti stranieri, i quali però dopo la laurea lascerebbero l’Italia per tornare in patria o andare a lavorare altrove: “Non resteranno insomma, salvo eccezioni, sul territorio. Succede già. E tra l’altro molti tra questi non parla granché, a sua volta, l’italiano. Quindi il cerchio non si chiude”.

Verissimo. Tanto che nel 2021 il Politecnico di Milano (in ritardo di anni rispetto ad atenei olandesi e tedeschi) si è reso conto che i propri laureati in inglese non entravano nel tessuto produttivo italiano al termine degli studi. Principalmente a causa della mancata conoscenza della nostra lingua. Da qui la decisione di imporre dei corsi obbligatori di italiano ai laureati stranieri nei corsi in inglese.

Infine, ricorda Rinaldis, “L’università si sostiene con i finanziamenti pubblici, e quindi tagliare fuori coloro che la finanziano dai suoi corsi, i contribuenti italiani, non mi pare una grande trovata. ”

Già. Troppo spesso si dimentica che le università “statali” sono pagate con le tasse di tutti i cittadini, e sono collocate in uno specifico territorio. Si presume che il loro scopo non sia quello di “vendere” corsi a studenti-clienti di qualunque parte del mondo e senza condizioni, ma sia invece quello di formare i giovani del territorio e contribuirne allo sviluppo, anche attraendo (e trattenendo) i migliori talenti dall’estero. Per fare questo, in Italia, la lingua italiana non può essere esclusa. Emblematica è la storia di un nostro collaboratore che ebbe un collega straniero, il quale dopo 4 anni di università a Torino non era in grado né di capire né di parlare l’italiano e… be’, potete leggere come finì la storia.

Purtroppo, a differenza che nei Paesi scandinavi e nei Paesi Bassi, in Italia non c’è serio dibattito attorno a questo tema. L’inglese è un dogma e non si può mettere in discussione. Lo stesso articolo del Carlino presenta un tono ironico dell’intervistatore nei confronti dell’intervistata Rinaldis, quasi irridente:

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Sarebbe invece ora di piantarla con questi luoghi comuni e frasi fatte, con questo confondere lo studio dell’inglese con lo studio in inglese, e aprire un serio dibattito su quanto vogliamo spingerci oltre con l’eliminazione della nostra lingua da ambiti fondamentali della società e dell’economia, in Italia.


Il sito dell’Università di Bologna lascia poche speranze, ma Patrizia Rinaldis dice che la decisione definitiva verrà presa solo il prossimo 29 febbraio 2024. Allora invitiamo chi di voi crede che questa decisione sia sbagliata, a usare il modulo qui sotto per farlo sapere ai responsabili dell’ateneo. Inserisci il tuo nome e la tua posta elettronica, che appariranno come mittenti. Se non modifichi oggetto e testo, rimarranno quelli predefiniti. Il messaggio verrà inviato all’indirizzo di riferimento del corso di laurea: [email protected] e in CC a [email protected], [email protected], [email protected], [email protected], [email protected], [email protected], e [email protected] (Ministero Università e Ricerca, Direzione Diritto allo studio, Ufficio Offerta formativa universitaria).

Facciamoci sentire:

[ La petizione è ora chiusa ]

 

 


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