Condividi questo articolo:
Lo scorso dicembre lessi su Esquire un articolo intitolato “Come mai pochi italiani parlano bene l’inglese?”. Il sottotitolo faceva già intendere l’importanza cruciale della vicenda: “Eppure ci sono dei dati molto confortanti. Soprattutto sul futuro e sui giovani italiani.”
L’articolo mi fece sorridere per l’ingenuità delle sue affermazioni, ma al contempo riflettere ancora una volta su quanto l’inglese in Italia non sia una lingua utile da imparare o una competenza da acquisire per poter svolgere determinate professioni o facilitare la comunicazione con persone di altri Paesi, ma sia una vera e propria ossessione. La conoscenza perfetta di questa lingua sembra dover essere la priorità per chiunque, dai politici agli studenti e i docenti universitari, così come qualunque successo personale o collettivo italiano sembra essere dovuto all’uso dell’inglese. A Milano e Cortina vengono assegnate le Olimpiadi? Il merito non è tanto del duro lavoro di centinaia di persone, durato anni, ma di alcune giovani atlete che sul palco della presentazione sapevano (addirittura!) scherzare tra loro in inglese.
Nel pezzo di Esquire apprendiamo che in Italia dovremmo assumere insegnanti di madrelingua inglese (evidentemente i laureati italiani in lingua non hanno un livello sufficiente), rinunciare al doppiaggio (che in Italia rappresenta una scuola di grande prestigio e tradizione, oltre che un laboratorio linguistico molto vivace): “il cinema, le serie tv, i programmi tv e la radio sono principalmente in italiano. Anche i prodotti culturali degli altri Paesi sono doppiati, quindi trasformati in lingua italiana. In Germania invece, per fare un esempio vicino a noi, sono sottotitolati. Le persone, quindi, si abituano a sentire la vera voce di attori e attrici, che spesso è in inglese.”
Per inciso, in Germania in realtà si utilizza moltissimo il doppiaggio in tedesco. In Italia, secondo un sondaggio della nota piattaforma Netflix, ben l’84% degli utenti italiani del servizio preferisce prodotti doppiati in italiano. Eppure per certi giornalisti e opinionisti pare che gli italiani non possano essere normali consumatori, ma eterni studenti con l’unica missione di parlare un inglese perfetto.
Paghi il canone Rai, l’abbonamento a Netflix, a Sky, il biglietto del cinema?… Giusto, ma non puoi decidere di ricevere in cambio un film o una serie doppiata nella tua lingua, non hai diritto a rilassarti e a essere intrattenuto, il tuo unico scopo dev’essere quello di imparare o migliorare il tuo inglese. I tuoi figli di 6 anni non capiscono le istruzioni di un gioco al parchetto sotto casa perché sono scritte solo in inglese? Male! Non possono giocare e magari esercitarsi a leggere nella propria lingua, devono sapere l’inglese. Tu non capisci le istruzioni che, lì a fianco, ti avvisano dei pericoli di far scendere i bimbi dallo scivolo con la sciarpa, perché sono scritte solo in inglese? Male! Devi conoscerlo, perché se protesti col comune o col produttore ti risponderanno che hanno scelto l’inglese per “farsi capire da tutti”. Quando ricordi loro che tecnicamente questo è illegale, abbasseranno un pochino la cresta, certo, ma già il concepire una tale risposta fa comprendere tante cose.
L’inglese è un dogma, il suo uso sempre e ovunque non può e non deve essere contestato, per nessuna ragione al mondo. Chi non lo sa, o anche solo non vuole doverlo usare in qualsiasi contesto, è un retrogrado, che dovrebbe prendere esempio da altri popoli ben più evoluti. Altri popoli, che guarda caso, parlano lingue che – con tutto il rispetto – hanno un numero di locutori di pochi milioni, o addirittura di qualche centinaio di migliaia di persone. Come denunciava il presidente emerito della Crusca Claudio Marazzini, nel suo libro “L’italiano è meraviglioso”, non si può mettere a paragone lingua come il danese o il finlandese, parlate da 4 o 5 milioni di persone, poco parlate e studiate fuori dai propri confini, con una grande lingua di cultura come l’italiano. Che non ha certo uno spazio linguistico come francese, spagnolo, inglese o portoghese, ma ha una enorme comunità di emigrati che la cercano, è tra le più studiate all’estero, ha 60 milioni di madrelingua in Italia e un altro milione tra Svizzera e Adriatico orientale, ed è la lingua di un Paese del G7. I prodotti commerciali vedono spesso il rilascio della versione italiana tra le prime. Amazon.it arrivò prima del sito messicano e di quello spagnolo, in castigliano, lingua internazionale di oltre 400 milioni di parlanti. La nostra lingua ha un buon peso e una certa importanza. per motivi economici e culturali.
Ma tutto questo, invece, sembra un ostacolo sulla strada dell’inglese-dogma: “Un altro motivo per cui noi italiani, ancora oggi, parliamo meno bene l’inglese è chesiamo un Paese mediamente grande e popoloso. Il terzo in UE per popolazione, per esempio. E questo fa sì che la percezione che abbiamo della nostra lingua sia di grande importanza. In Paesi più piccoli come la Danimarca, per esempio, c’è decisamente più consapevolezza che la propria lingua non sia sufficiente per vivere nel mondo odierno.”
Notizia per l’articolista di Esquire: la propria lingua può essere più che sufficiente per vivere nel mondo moderno. Puoi lavorare in Italia, fare la spesa, comprare una casa, studiare, leggere notizie, andare in vacanza, usando l’italiano. Si può fare, e se non lo si potrà più fare non sarà una fatalità dovuta al progresso del “mondo moderno”, ma una precisa scelta politica dovuta al diffondersi di tutti i luoghi comuni che questi articoli di giornalisti ossessionati dall’inglese si portano dietro.
Naturalmente non dico che l’inglese non sia utile nel mondo di oggi. Lo è eccome. Per certe professioni, è indispensabile, come lo sono altre lingue, ricordiamolo. Ma dire che sia obbligatorio per vivere, per chiunque, è semplicemente un’idiozia.
Eppure anche opinionisti importanti come Federico Rampini continuano a ripetere questo mantra, stupendosi di fatti perfettamente normali e naturali. Il giornalista del Corriere trapiantato a New York resta turbato dal fatto che dei genitori che avevano portato le figlie al cinema all’aperto protestassero perché il film che avevano pagato per vedere, veniva per errore proiettato con l’audio in inglese. “[…] in vacanza ero andato in un cinema all’aperto a vedere “Barbie”. C’erano nel pubblico tantissime mamme con figlie, quindi ragazzine, moltissimi milanesi in vacanza che hanno la casa di villeggiatura in Liguria. Per un errore il tecnico ha mandato in proiezione la versione originale inglese e dopo pochi minuti è scoppiato un putiferio in sala di ragazzine milanesi in vacanza in Liguria che non capivano l’inglese.
Qui abbiamo un problema, guardate…”
NO. Il problema ce l’ha lei, dottor Rampini. Il problema, grave, di vedere il mondo con le lenti deformanti della propria ideologia.
L’inglese, certo, ha una diffusione globale, aiutata dal fatto che in molti Paesi, soprattutto occidentali, da almeno trent’anni il suo studio è obbligatorio in ogni grado scolastico. Si stima oltre un miliardo di parlanti inglese come lingua straniera. Tantissimi, ma comunque solo un ottavo della popolazione mondiale. I madrelingua poi, sono cinquecento milioni, solo il 5% degli abitanti del pianeta, che di conseguenza per il 95% non hanno l’inglese come lingua madre. E quel miliardo che la usa come lingua seconda, quanto la conosce? Secondo l’ultimo rapporto EF, non molto bene: oltre la metà del campione rilevato, ha una conoscenza bassa o molto bassa dell’inglese.
Dunque l’inglese, per quanto diffusissimo e “lingua franca” in diversi ambiti, è ben lungi dall’essere “la lingua del mondo”, come si sente affermare a volte in Italia. La maggior parte di chi lo parla sa usarlo per chiedere indicazioni o per ordinare del cibo, ma poco di più.
Anche gli studi citati dal prof. Michele Gazzola nel suo recentissimo articolo per Italofonia, che insegna all’Università dell’Ulster, confermano che persino in Europa l’inglese è conosciuto da meno della metà degli abitanti (e solo da un quarto a livello buono). Nel vecchio continente i giovani conoscono mediamente di più l’inglese, ma il già citato rapporto EF dimostra che ad altre latitudini non è così.
Eppure Rampini, nel suo delirio anglomane, continua a stupirsi dell’ovvio. A un convegno a Gorizia, Italia, lo storico “Benny Morris diceva delle cose che io sapevo avrebbero scandalizzato, urtato una parte del pubblico. Eppure quando lui le diceva, c’era silenzio in sala perché Benny Morris parlava in inglese. Poi subentrava la traduzione e, alla fine della traduzione, dalla sala arrivavano grida, proteste, fischi, dissenso civile.”
INCREDIBILE!!! Il pubblico capiva meglio la propria lingua che una lingua straniera! Inaudito, inimmaginabile.
Prosegue l’opinionista del Corriere: “a Gorizia, nel nord est, in una delle città più ricche, moderne, evolute d’Italia, l’inglese ancora lo parlano e lo capiscono in pochi. E mi è stato detto che questa cosa cambia improvvisamente se uno, a poche centinaia di metri dalla sede di quel convegno, si reca Nova Gorica. È la città gemella, l’altra metà di Gorizia, in Slovenia, dove l’inglese lo sanno tutti. ”
Al nostro intellettuale sfugge forse quanto ricordavamo più sopra. Le lingue con pochi parlanti fanno più fatica – purtroppo – a reggere l’uso dell’inglese globale, perché sono sostenuto da una comunità e da un mercato più piccoli. Lo sloveno, che naturalmente è degno di rispetto come ogni lingua e co-ufficiale in alcuni comuni italiani di confine, è parlato da poco più di due milioni di persone. Gli abitanti della sola città di Roma, per intenderci, sono più dei parlanti sloveno in tutto il mondo.
“Questa storia prendetela sul serio vi prego. Non perché io abito in America e devo parlare l’inglese dalla mattina alla sera ma sapere l’inglese oggi è come avere la patente di guida. È essenziale soprattutto per i giovani per qualunque lavoro vogliano fare: dobbiamo darci una mossa.”
Caro Rampini, purtroppo sono in tanti a prendere sul serio queste sue parole. Ma non è una buona cosa. Non ho nulla contro l’inglese, mi è stato e mi utilissimo personalmente e professionalmente, non avrei mai potuto fare certe esperienze lavorative senza conoscerlo. Ho partecipato ad eventi e conferenze negli Stati Uniti, tenute naturalmente solo in inglese, senza grossi problemi. Eppure l’inglese l’ho imparato per la prima volta alle scuole medie, da un’insegnante italiana, brava e preparata. Niente vacanze studio all’estero, né tate madrelingua, nessun obbligo di guardare cartoni animati o film in inglese, niente di tutto questo. Aggiungo che, oltre all’inglese, la mia carriera ha richiesto altre competenze, che ho appreso al liceo e all’università, frequentati studiando solo ed esclusivamente in italiano. Non ho vent’anni, ma neppure 60, sono nel mezzo. Dunque no, non sprecate gli “OK, boomer”.
In Italia abbiamo spesso un approccio ideologico, preconcetto, “di pancia” ai vari temi. L’energia, l’aborto, l’eutanasia, e naturalmente anche la lingua. Dovremmo essere più razionali. Se oggi l’inglese serve, prendiamone “quanto basta”, come nelle buone ricette. Perché, come per il sale, se se ne adopera troppo, poi è difficile tornare indietro. La ricetta è rovinata per sempre. E la lingua materna è sempre il piatto più nutriente e bilanciato. Le varianti alla dieta fanno piacere e sono salutari, purché non si esageri.
Condividi questo articolo:
Un pensiero su “Rampini, Barbie, Gorizia e la solita ossessione italiana per l’inglese”
Rampini non mi sorprende: è un cittadino statunitense di origine italiana
I commenti sono chiusi.