Politecnico di Milano: su 40 corsi 27 sono solo in inglese, ma il Consiglio di Stato approva

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La lunga vicenda del tentativo di abolizione della lingua italiana al Politecnico di Milano sembrava essersi conclusa nel gennaio 2018, con una sentenza che sanciva il divieto di marginalizzare l’uso dell’italiano in modo indiscriminato nell’istruzione universitaria. Rileggiamone alcuni passaggi. Secondo la sentenza del Consiglio di Stato, che ne richiama una precedente della Corte costituzionale, l’uso esclusivo dell’inglese «estrometterebbe integralmente e indiscriminatamente la lingua ufficiale della Repubblica dall’insegnamento universitario di interi rami del sapere» e «imporrebbe, quale presupposto per l’accesso ai corsi, la conoscenza di una lingua diversa dall’italiano, così impedendo, in assenza di adeguati supporti formativi, a coloro che, pur capaci e meritevoli, non la conoscano affatto, di raggiungere “i gradi più alti degli studi”, se non al costo, tanto in termini di scelte per la propria formazione e il proprio futuro, quanto in termini economici, di optare per altri corsi universitari o, addirittura, per altri atenei». 



Non solo. Secondo il Consiglio insegnare totalmente in inglese può esser lesivo della libertà di insegnamento, sottraendo al docente la scelta sul «come comunicare con gli studenti, indipendentemente dalla dimestichezza ch’egli stesso abbia con la lingua straniera». L’ateneo può però affiancare all’erogazione di corsi universitari in lingua italiana corsi in lingua straniera, anche in considerazione della «specificità di determinati settori scientifico-disciplinari».

I corsi in lingua inglese dunque sono possibili, ma “gli atenei debbono farvi ricorso secondo ragionevolezza, proporzionalità e adeguatezza, così da garantire pur sempre una complessiva offerta formativa che sia rispettosa del primato della lingua italiana, così come del principio d’eguaglianza, del diritto all’istruzione e della libertà d’insegnamento.”

Questa la decisione finale giunta dopo tre gradi di giudizio e lunghissimi dibattiti. Ma a distanza di quasi due anni, possiamo dire che sia stata rispettata?

Oggi, al Politecnico di Milano, su un totale di 40 corsi di laurea magistrale 27 sono in inglese, 4 sono in italiano e 9 sono in italiano e in inglese e risulta che su un totale di 1.452 insegnamenti1.046 sono in inglese400 in italiano e 6 sono duplicati in italiano e in inglese.

Questi dati sono stati diffusi venerdì scorso da Maria Agostina Cabiddu, docente che diede inizio alla protesta contro l’Ateneo, all’incontro “Quante lingue per il futuro del Paese?” che si è tenuto a Milano (presso l’università Cattolica, all’interno della manifestazione Bookcity) in cui Marco Cerase presentava il proprio libro “In italiano please! Istigazione all’uso della nostra lingua all’università”.

 

Basta visitare il sito polimi.it nella sezione “Corsi di Laurea magistrale” per rendersi conto a colpo d’occhio della situazione:

Il numero delle bandierine italiane nell’anno accademico 2019/20 è addirittura in diminuzione rispetto alle 14 del 2018 su 42 corsi, anno della sentenza (erano 18 su 45 corsi nel 2017).

Ciò che è accaduto è che il Politecnico ha continuato ad erogare i propri corsi principalmente in inglese, a dispetto delle sentenze e del buon senso. I docenti guidati da Maria Agostina Cabiddu hanno dunque promosso un “giudizio di ottemperanza”, ricorrendo nuovamente al Consiglio di Stato. Il risultato è giunto pochi giorni fa: in data 11 novembre 2019, il Consiglio di Stato ha rigettato il ricorso ribaltando ciò che aveva affermato nella sentenza del 2018, che, sostiene, il Politecnico non ha violato perché:

[…] risulta un numero adeguato di corsi di lingua italiana che consente di ritenere che sia stata effettuata una scelta amministrativa che rappresenta l’esito di un proporzionato bilanciamento di interessi, di rilevanza costituzionale, sottesi alle esigenze di internalizzazione dell’offerta formativa e a quelle di dare la giusta rilevanza alla lingua italiana.”

La professoressa Cabiddu ha mostrato non solo come la sproporzione tra i corsi in inglese e in italiano è evidente, ma anche che, andando a vedere i corsi coinvolti, è palese che tutti i corsi fondamentali sono in inglese, mentre nella nostra lingua risultano essere quelli opzionali e meno importanti.

Quello che è accaduto è molto semplice: anche se non è possibile passare esclusivamente e “per intero” all’insegnamento in inglese (i corsi non possono essere “solo” in inglese, ma devono essere “anche” in italiano), nella pratica basta erogare pochi corsi in italiano, magari quelli di minore rilevanza, per essere formalmente a posto.

Oltre a ribaltare ciò che aveva affermato l’anno scorso, con questo ultimo atto il Consiglio di Stato ha completamente disatteso ciò che aveva affermato la Corte Costituzionale, visto che questi numeri sul rapporto inglese/italiano non sono compatibili né con il “primato” della lingua italiana, né con il principio di “ragionevolezza, proporzionalità e adeguatezza” con cui dovrebbero essere distribuiti i corsi.

Purtroppo, in quest’ultima interpretazione del Consiglio di Stato, visto che il “principio di ragionevolezza” nella distribuzione dei corsi è soggettivo e lasciato alla discrezione degli atenei, il Politecnico è legittimato nella sua prassi anglomane e italianicida. Una politica che discrimina la nostra lingua, oltre gli studenti che non padroneggiano l’inglese e che si trovano dinnanzi a barriere che li escludono e impediscono loro l’accesso al diritto allo studio nella propria lingua madre.

Il dibattito sulla lingua – così come su molti altri temi – in Italia è miope e poco razionale, guidato da preconcetti più che da dati e visioni lungimiranti. La stessa internazionalizzazione degli atenei non sembra infatti porsi due domande fondamentali: perché uno studente sceglie proprio l’Italia come meta dei suoi studi e cosa l’Italia vuole fare degli studenti stranieri più meritevoli?

 

 

 


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