Il 1° maggio e il diritto dei lavoratori all’italiano

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Oggi si celebra, in Italia come in altri Paesi del mondo, la Festa dei lavoratori. La ricorrenza del Primo maggio è un’occasione collettiva per riflettere sul mondo del lavoro e le condizioni dei lavoratori. Accanto alle condizioni salariali, alla sicurezza sul lavoro, al tema della precarietà e altre questioni cruciali, credo che il governo, le opposizioni, i sindacati e tutte le parti sociali, debbano riflettere anche sul diritto del lavoratore a una comunicazione trasparente da parte dell’azienda e dello stato.

Poter comprendere il proprio contratto di lavoro, le mansioni richieste, i regolamenti interni, le norme per la propria sicurezza, le dinamiche per il possesso di quote azionarie aziendali, è un diritto di ciascun lavoratore. Un diritto che oggi è minacciato da un nuovo nemico, impensabile fino a pochi anni fa: l’inglese.

Non mi riferisco all’uso di anglicismi nel cosiddetto linguaggio aziendalese, che pure esiste, ma al fatto che nelle aziende italiane è l’uso dello stesso inglese che sta progressivamente soppiantando l’italiano in situazioni e ambiti molto importanti. Farò alcuni esempi, tutti vissuti da me in prima persona o da persone a me vicine, con cui ho lavorato direttamente.

L’inglese però potrebbe mettersi sulla vostra strada ancora prima di essere assunti in un’azienda. Non perché la vostra competenza linguistica venga messa alla prova durante un colloquio, ma per… poter leggere il vostro contratto di lavoro!

Diverse aziende, spesso succursali italiane di multinazionali statunitensi, hanno preso l’abitudine di stilare i contratti di lavoro dei propri dipendenti italiani assunti per operare sul mercato italiano, esclusivamente in inglese. Naturalmente un inglese giuridico-legale, dalla cui comprensione dipendono però le vostre mansioni, le regole da rispettare, le clausole che comportano penali, l’inquadramento, la retribuzioni e altri aspetti cruciali. Ma nulla a quanto pare obbliga l’azienda a fornirvi una copia nella vostra lingua, anche se siete assunti nel vostro Paese e qui eserciterete i vostri compiti.

Potrebbe anche capitare che dalla vostra conoscenza di questa lingua straniera possa dipendere la vostra stessa sicurezza. Infatti su alcuni luoghi di lavoro la maggior parte dei corsi sulla sicurezza vengono erogati in inglese, magari perché il materiale è prodotto in una sede centrale negli Stati Uniti o a Londra, e per l’azienda è più pratico non creare versioni in altre lingue. Il massimo che lo Stato italiano potrebbe richiedere loro è di farvi firmare un modulo in cui dichiarate di aver compreso tutti i contenuti somministrati in inglese e di non aver bisogno di una traduzione in lingua italiana. E vorrei vedere quale dipendente avrebbe il coraggio di non firmarlo, anche se non avesse capito nulla.

Se questo vi sembra incredibile, sappiate che ci sono addirittura aziende dove il datore di lavoro obbliga il personale, per la maggioranza italiano, a comunicare sempre in inglese, in ufficio, durante l’orario di lavoro. Solo le pause sono escluse… così invece che fumare di nascosto nei bagni o alla finestra, qualcuno sfrutterà i minuti di pausa per fare una cosa ancora più proibita: parlare nella propria lingua!
Mi è capitato di sentire due soli casi di questo tipo, ma l’assurdità di imporre ai dipendenti una lingua di lavoro diversa dalla propria, in un contesto non così fortemente internazionale da poterlo giustificare, dovrebbe essere sufficiente a farci alzare il livello di attenzione.

Se possedete azioni della vostra azienda, anche in questo caso l’inglese potrebbe mettersi sulla vostra strada. Molte aziende multinazionali informano i propri dipendenti italiani circa l’acquisto e la vendita di quote aziendali con sessioni totalmente in inglese. E persino agli operai e ai pensionati dell’italianissima Fiat, al momento della fusione in Stellantis, è stato comunicata un’informativa per il consenso scritta esclusivamente in inglese legale. Lo so per certo, dato che uno di quegli operai è mio parente.

Tutto questo ha radici profonde, che vengono da lontano, e che hanno a che fare con il principale motore dell’inglese globale nel mondo di oggi, ovvero l’influenza degli Stati Uniti e delle aziende statunitensi sul resto del mondo. Antonio Zoppetti, che ha pubblicato da pochissimo un nuovo saggio dedicato proprio a questo argomento, scriveva in un suo articolo dello scorso anno che il fenomeno dell’uso crescente dell’inglese nelle aziende italiane viene spinto dalle grandi aziende d’oltreoceano, che nelle loro succursali italiane esportano concetti e figure come crew (ma anche i crew-delivery o i crew-trainer) o i guest experience leader e swing assistant (anche detti training manager). L’inglese e l’itanglese non riguardano più la solo comunicazione e le scelte sociolinguistiche che entrano in gioco nel parlare, ma sono entrati ufficialmente e istituzionalmente nella contrattualistica.

Negli anni Novanta – ricorda Zoppetti – un giurista del calibro di Francesco Galgano aveva analizzato il radicarsi di parole come “leasing” o “franchising” nella giurisprudenza, mostrando che si affermano in tutto il mondo per precise disposizioni delle case madri statunitensi che impongono alle filiali la propria terminologia. Queste tassative raccomandazioni di non tradurre e adattare il meno possibile i concetti del proprio diritto in quelli delle lingue locali serve a mantenere la loro uniformità internazionale e le protegge da ogni possibile conflitto con gli ordinamenti giuridici dei singoli Paesi. (Francesco Galgano, “Le fonti del diritto nella società post-industriale”, in Sociologia del Diritto, Rivista quadrimestrale fondata da Renato Treves, 1990, p. 153). Questa volontà è in linea con quella più generale con cui gli Stati Uniti tentano in ogni modo di estendere la validità delle proprie leggi anche al di fuori dei propri confini nazionali in altri ambiti.

Questa terminologia, dapprima colonizza l’ambito specialistico, causando a volte un vero e proprio “collasso di ambito”, concetto di cui ha parlato il linguista australiano Joe Lo Bianco, dell’Università di Melbourne, che chiama così il caso in cui una lingua cessa di adattarsi ai cambiamenti in un determinato ambito fino a perdere la capacità di esprimerlo in modo efficace. Dopodiché tende a travalicare rapidamente i confini del proprio settore, per espandersi nel linguaggio comune, favorito da un momento storico in cui tecnicismi economici o tecnologici riguardano la vita dei comuni cittadini molto più che in passato. Questo mette a rischio la capacità dell’italiano, sul medio periodo, di restare una lingua in grado di esprimere qualsiasi ambito, rischiando di trasformarla in un dialetto, come dichiarò più volte il compianto linguistica Luca Serianni.

Ma ciò su cui invito tutti a riflettere, oggi, è che tutto questo non minaccia solo un bene comune come la nostra lingua, l’italiano, ma lede il diritto di tantissimi lavoratori alla comprensione e alla trasparenza. Un diritto che dovrebbe valere sempre e per tutti, indipendentemente dal fatto che la conoscenza e l’uso dell’inglese siano richiesti per svolgere il proprio lavoro.

In Francia, la ben nota legge Toubon ha posto un freno a tutto ciò ormai da quasi trent’anni, sancendo un diritto al francese per tutti i cittadini. In Italia ci si scandalizza se una proposta di legge vuole multare le aziende che scrivono contratti di lavoro o altre comunicazioni ufficiali esclusivamente in inglese.

Forse lo stato dovrebbe sancire il diritto dei cittadini alla propria lingua, forse i sindacati dovrebbero accantonare l’idea di “tornare alle origini” chiamandosi “Unions”, come propose qualche anno fa il segretario della CGIL, e rendersi conto che l’inglese oggi non è più lingua dei giovani che cercavano in un’altra cultura la fuga da una realtà nazionale ancora “ingessata”, ma è uno strumento di controllo e di potere che viene spinto dall’alto, un grimaldello per forzare le tradizioni delle società europee, anche in materia di lavoro e stato sociale, e imporre un approccio diverso, americano. Perché dalla forma (linguistica) si passa poi alla sostanza (giuridica). Insomma, l’inglese oggi è “la lingua dei padroni“, e sarebbe il caso che tutti ce ne rendessimo finalmente conto.

 


In copertina: immagine da wikimedia

 

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