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Nelle ultime settimane in Italia se ne è parlato molto. I lavoratori che consegnano cibo ordinato dai clienti tramite un’app sul loro cellulare.
Se ne parla a causa della mancanza di tutele di questi lavoratori, venute alla ribalta nel mese di maggio 2018 quando uno di loro ebbe un incidente molto grave in strada, mentre stava consegnando, e si ritrovò completamente privo di tutele. Il 24 maggio, a Milano, si è tenuta una grande manifestazione. E uno dei loro rappresentanti, parlando alle persone presenti al presidio, ha dato una definizione della propria categoria: ha detto “questa è una lotta che riguarda tutti i fattorini”:
Queste però sono eccezioni, perché per la stragrande maggioranza dei media italiani, e anche dei politici, essi sono “i rider”.
La prima domanda che dobbiamo porci, come sempre, è se questa sia una scelta solo italiana e se in altri paesi i riders abbiano un nome diverso. Il sistema più semplice per capirlo è dare un’occhiata alle applicazioni e i siti di consegne a domicilio nelle diverse versioni locali.
Cominciamo da Foodora (Foodpanda in alcuni Paesi del mondo). Sul sito italiano campeggia in alto una fascia che invita i lettori a diventare un rider, appunto:
Ma proviamo a spostarci sul sito francese e vediamo come viene tradotto lo stesso messaggio:
Qui si parla di “communauté de couriers”, comunità di “corrieri”. Non abbiamo trovato altri siti in lingua neolatine.
Spostiamoci allora su Deliveroo Italia, dove ovviamente si parla di “Rider”. L’azienda non è al momento presente in Francia, ma se visitiamo il sito belga in francese, troviamo che i fattorini vengono chiamati “Bikers”, ma nella spiegazione si parla di “courier”, corriere. Sbirciando il sito in lingua tedesca, il termine resta quello: kuriere.
Su Glovo, in lingua spagnola e italiana si parla di “Glovers”, mentre altre lingue sono più esplicite…
Uber EATS è l’unica che abbiamo trovato ad usare, anche nella versione italiana, il termine “corriere”:
Senza voler fare dietrologie, viene da chiedersi se ci sia un motivo diverso dalla semplice moda per gli anglicismi, che spinge le aziende, e di conseguenza i media, ad usare il termine “rider” invece di altri, più comuni e più chiari per tutti.
Un articolo di pochi giorni fa pubblicato sul quotidiano italiano “Il Manifesto” ipotizza che l’uso di questo termine da parte delle aziende serva a indorare la pillola e a non far associare il “rider” a una professione fatta di fatica, pressioni e ritmi frenetici: “[…] la questione dei cosiddetti riders, chiamati così dalle loro aziende che parlano inglesorum per confonderci, ma in realtà dei ciclofattorini, come quelli degli anni ’50“.
In effetti diventare un rider o un glover o un biker può suonare allettante. Certamente più che accettare un lavoro come “fattorino pagato a cottimo”. Ma forse a chiamare le cose col proprio nome si rifletterebbe di più. Lavoratori, sindacati, politici e opinione pubblica.
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