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Il processo è già in atto da almeno da un decennio, e in alcuni atenei si trova già in stato avanzato. L’accordo raggiunto oggi poco dopo la mezzanotte dalle forze politiche però lo renderà ufficiale e obbligatorio per tutte le università sul territorio nazionale, ad eccezione di quelle delle province e regioni autonome con regime di bilinguismo paritario. Stiamo parlando dell’uso esclusivo della lingua inglese nell’insegnamento universitario.
I motivi della scelta
La scelta è stata dettata – dicono alcuni esponenti politici – dalla volontà di dare una svolta definitiva all’internazionalizzazione dei nostri atenei, ancora arretrati nel numero di studenti stranieri che scelgono le aule del Bel Paese. E al contempo dalla volontà di obbligare i nostri giovani , definiti troppo pigri, a imparare bene la lingua inglese. L’esistenza della “scappatoia” dei corsi in italiano costituiva un alibi contro l’apprendimento della “lingua del mondo”, riferiscono le nostre fonti.
Risorse dirottate dall’insegnamento dell’italiano
Naturalmente verranno stanziate risorse apposite per potenziare l’insegnamento dell’inglese agli studenti delle scuole primarie e secondarie e per la formazione dei docenti. I fondi, oltre che dal Recovery Fund europeo, dovrebbero arrivare da uno spostamento di risorse dall’insegnamento dell’italiano, sia in Italia, che soprattutto all’estero. “Perché sprecare denaro pubblico per insegnare l’italiano a stranieri che già parlano l’inglese? Meglio usarlo per insegnare meglio quest’ultimo ai giovani italiani”, dicono dai palazzi romani.
Le critiche
Fortunatamente poche le critiche, provenienti da ambienti passatisti e incartapecoriti, con la solita retorica novecentesca: il plurilinguismo come valore, il diritto allo studio, la potenza della lingua madre come strumento privilegiato di un insegnamento e un apprendimento di qualità, il ruolo della lingua italiana nell’attirare e trattenere talenti nel nostro Paese… solo alcune delle critiche trite e ritrite al progresso linguistico del Paese. Ma si sa, l’Italia è sempre restia a ogni cambiamento, sia pure necessario e positivo come questo.
I tempi
Si inizierà dall’anno accademico 2023/24 con i corsi di laurea magistrale e di dottorato, per poi estendere l’obbligo anche ai corsi di laurea triennale a partire dal 2025/26, in tempo per le Olimpiadi invernali di Milano-Cortina, dove il Paese potrà finalmente presentarsi al mondo con un new look, innovative young e truly international.
Un cambiamento epocale ma che trova già grande consenso politico e sociale, tanto che è facile prevedere che nei libri di storia troveremo presto scritta la data di oggi: 1° aprile 2021.
Va bene, ci avete scoperto
Questa è una fake ne..ehm.. una notizia fittizia 🙂 Si tratta infatti di uno scherzo, che nulla ha a che vedere con eventi e persone reali. Qualsiasi riferimento ad esse è puramente casuale.
Ci scusiamo con chiunque ci abbia creduto: a chi sarebbe favorevole, per la delusione. Ai contrari, per il procurato infarto.
Pesce d’aprile… ma non troppo
Questa nostra notizia è appunto un pesce d’aprile, ma abbiamo deciso di pubblicarla perché in realtà non è poi così inverosimile, e vorremmo che uno scenario portato (un pochino) all’estremo suscitasse una riflessione da parte di tutti.
Questa dinamica è davvero già in corso da diversi anni, e prende sempre più piede.
L’arretramento dell’italiano nella Ricerca e nell’alta formazione È GIÀ IN ATTO
Se è vera la definizione sociolinguistica secondo la quale “una lingua è un dialetto che ha fatto carriera”, l’Italia ha preso e continua a prendere decisioni politiche che stanno “demansionando” l’italiano, facendogli fare decisi passi indietro nella carriera.
In particolare, le istituzioni politiche e accademiche italiane stanno procedendo da alcuni anni a una progressiva eliminazione dell’uso della lingua italiana nel mondo della formazione universitaria e della ricerca scientifica. Chiariamo subito che si tratta di scelte. Scelte che vengono fatte in un contesto internazionale dove l’inglese è lingua franca globale in moltissimi contesti, tra cui quello scientifico e tecnologico, ma comunque scelte libere, né automatiche né scontate. Tanto che in altri Paesi si sono compiute scelte diverse.
Il caso più eclatante in ambito universitario è senz’altro la vicenda del Politecnico di Milano.
L’ateneo milanese nel 2012 ha dichiarato l’inglese sua “lingua ufficiale” e ha sancito la totale (t o t a l e) eliminazione dei corsi di laurea specialistica e di dottorato in italiano. Compreso quello in Diritto dell’urbanistica, ad esempio, che spiega le leggi (italiane) relative all’urbanistica. Nessun criterio, semplicemente tutti i corsi avanzati in italiano dovevano sparire per attirare più studenti stranieri e “evitare inutili duplicati che sarebbero uno spreco di risorse”. No, non stiamo più scherzando, tutto vero, pubblico e documentato.
La vicenda, portata davanti al TAR della Lombardia da un gruppo di docenti del Politecnico capitanati dalla prof.ssa Cabiddu e poi, a causa del ricorso dell’ateneo e del Ministero dell’istruzione (!!!), attraverso tutti i gradi di giudizio fino alla Corte costituzionale e al Consiglio di Stato, ha visto vincere i docenti. L’italiano non può essere eliminato del tutto. Tutto risolto? No, perché nell’anno accademico 2019/20 il Politecnico milanese teneva 40 insegnamenti nelle lauree specialistiche, di cui 27 solo in lingua inglese, 9 solo in italiano e i restanti in doppia opzione. Ne abbiamo parlato qui.
Parlando di ricerca, invece, viene subito alla mente la questione dei Prin.
Si tratta dei Progetti di rilevante interesse nazionale: progetti di ricerca di varie discipline, che il MIUR, ministero italiano della Ricerca, esamina al fine di concedere finanziamenti. Gli elaborati sottoposti al ministero nell’ambito dei Prin fino alla fine degli anni ’90 erano redatti esclusivamente in italiano; nei primi anni 2000 arrivò la possibilità di affiancare una versione in inglese, allo scopo di rendere i progetti – soprattutto delle scienze “dure” – accessibili anche a commissioni con membri stranieri non italofoni. Ma dal 2018 il regolamento è cambiato di nuovo: l’obbligo è di scrivere sempre e comunque i progetti in inglese, mentre una versione italiana può essere aggiunta in modo facoltativo. Il che equivale a dire che nessuno la presenta. Tutto questo, affiancato alla progressiva regressione dell’italiano nell’insegnamento universitario di cui sopra, costituisce un rischio concreto per la nostra lingua. Il rischio di ritrovarsi a breve non più in grado di esprimere il mondo della scienza. In parte già accade, dato che molti scienziati affermano (a volte quasi con vanto) di non saper parlare della propria disciplina in italiano. Le riviste scientifiche specialistiche in lingua italiana sono scomparse. Tutto questo mentre la rivista Nature sceglie invece di aprire co-edizioni in lingue europee, cominciando proprio dall’italiano.
Senza contare il grado di assurdità che si raggiunge quando a chiedere finanziamenti sono lavori riguardanti le scienze umane. Un progetto di ricerca in studi danteschi dovrebbe essere scritto in inglese, così come uno riguardante la giurisprudenza o la storia d’Italia. Abbiamo trattato la vicenda dei Prin qui.
Cosa fare?
Quello che manca all’Italia è una politica linguistica. Il solo pronunciare queste due parole vicine solleva in Italia lo spettro delle politiche fasciste, fatte di divieti di parole straniere, qui-si-beve e arlecchini. Fortunatamente quella non è l’unica politica linguistica possibile. Fu la politica linguistica di una dittatura. Oggi esistono politiche per la lingua – nazionali o regionali – in molti Paesi democratici, come la Francia, la Spagna o la vicina Svizzera. Esistono in realtà anche in Italia, ma relative alle minoranze linguistiche di alcune parti del territorio, basti pensare all’Alto Adige.
È per questo motivo che Italofonia.info appoggia il progetto di proposta di legge che il collettivo Attivisti dell’italiano ha presentato al Parlamento di Roma lo scorso 22 marzo. La proposta per una politica linguistica si articola nei seguenti punti:
- Avviare una campagna mediatica contro l’abuso dell’inglese
- Dare il via a un’analoga campagna nelle scuole
- Emanare linee guida e raccomandazioni per il linguaggio dell’amministrazione e quello istituzionale
- Evitare gli anglicismi nei contratti di lavoro
- Valorizzazione dell’Accademia della Crusca
- Inserire nella Costituzione che la nostra lingua è l’italiano
- Sancire che l’italiano non può essere estromesso come lingua della formazione
- Ripristinare l’italiano come lingua dei Prin
- Cancellazione dell’obbligo di conoscere l’inglese, come unica seconda lingua, nella pubblica amministrazione
- Adoperarsi perché l’italiano ritorni a essere lingua di lavoro in Europa
- Trasformazione della lingua italiana in un bene da esportare
La proposta è già stata assegnata in Senato alla Commissione competente perché sia discussa. Ma perché ciò avvenga serve un consenso popolare attorno alla proposta.
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Perché questo articolo resti solo un pesce d’aprile… 😉
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