Passare al setaccio dell’inglese le parole inutili della Costituzione italiana?

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La polemica nata intorno alla decisione del MIUR di rendere obbligatorio – per l’ennesimo anno – il solo inglese per la presentazione di progetti di ricerca di rilevanza nazionale (Prin) ha scatenato una serie di reazioni. Siamo felici che ci sia dibattito, perché la lingua è un bene comune che dovrebbe interessarci tutti. Ma tra queste reazioni, un articolo in particolare ci è balzato all’occhio: quello pubblicato da Antonio Gurrado su Il Foglio del 14 gennaio.

L’articolo si intitola: Usare l’inglese è il miglior contrappeso all’italiano astratto delle università.

Il “pezzo” di Gurrado è una risposta a un altro articolo, scritto da Paolo Di Stefano per il Corriere due giorni prima. In realtà Gurrado non vuole confutare la tesi del collega, preoccupato come la Crusca per “l’annientamento del plurilinguismo, la riduzione dell’italiano a dialetto e l’estinzione del linguaggio scientifico nostrano”. Il giornalista, anzi, concorda pienamente sull’esistenza di questo rischio.

Ma, dice, l’inglese porta un vantaggio superiore al pericolo. Quale? Quello di essere un “grande setaccio”.



Per usare le parole dell’autore, la lingua inglese sarebbe, per proprietà intrinseche, una sorta di filtro miracoloso in grado di “disfarci delle contraddizioni e delle ambiguità della legislazione italiana”. E invita il lettore a fare l’esercizio di tradurre in inglese l’articolo 1 della Costituzione, aggiungendo: “Vedrete che, dopo aver vanamente girato le parole fra le mani, deciderete di far cadere quelle che esprimono concetti oscuri o astrusi (“a democratic republic based on work”) accorgendovi che, alla fine, sono superflue”.

Una Costituzione indicata da molti studiosi, nel corso dei decenni, come esempio di linguaggio alto ma chiaro al tempo stesso, nello sforzo di farsi comprendere da tutti, sarebbe dunque scritta in una lingua che costituisce, per sua stessa natura, un ostacolo alla chiarezza. Per quanto l’articolo possa voler essere provocatorio, rimane una tesi di fondo che ha dell’incredibile: la fumosità e la vaghezza dell’italiano (e forse dunque anche delle altre lingue neolatine?) contrapposte alla chiarezza e al pragmatismo dell’inglese. Caratteristiche, pare, della lingua stessa, e non di chi ne fa uso.

Non solo: l’italiano appare quasi come la concausa delle storture attribuite al sistema burocratico e accademico italiano. Il fatto che, come scrive l’autore, in Italia spesso i progetti vengano “messi insieme per rispondere a un bando” già scritto (e non il contrario) sembra un comportamento che trova nella fumosità intrinseca dell’italiano il complice perfetto. Meglio dunque obbligare all’uso dell’inglese, una lingua superiore, che obbliga alla chiarezza smascherando chi cerca di ottenere soldi dallo Stato senza un valido progetto.

Questo filone di pensiero esiste, e le sue conseguenza potrebbero essere di enorme portata per il futuro della lingua italiana. In negativo, naturalmente. L’esistenza stessa dell’italiano, che oggi è indicata come rifugio per fannulloni in cerca di finanziamenti, ieri era l’ostacolo che il Politecnico di Milano vedeva rispetto all’arrivo di studenti stranieri.
Gli studenti verrebbero di meno in Italia non per la ridotta competitività e attrattiva del Paese, non per i costi degli affitti o per l’eccessiva burocrazia, non per l’organizzazione degli atenei o per un giudizio sulla qualità dell’insegnamento, ma perché esistono “anche” corsi universitari in italiano, duplicati inutili di quelli in inglese. Una “duplicazione” che il POLIMI ha provveduto ad eliminare, tagliando gran parte degli insegnamenti in lingua italiana, tanto che lo scorso anno su 40 corsi magistrali, 27 erano solo in inglese.

Questa è la qualità delle riflessioni della classe dirigente italiana. Tutto ciò mentre il mondo scientifico, che con ogni probabilità avrà a lungo nell’inglese la sua lingua franca, vede la Cina balzare al primo posto per pubblicazioni scientifiche, scritte sempre di più in cinese, e vede riviste internazionali come Nature lanciare edizioni in lingue europee (la prima proprio in italiano).

Maria Luisa Villa, immunologa e accademica della Crusca, ha condiviso con noi un suo commento alla vicenda:

Sempre le lingue dominanti tendono ad apparire migliori di quelle che le circondano. Da qualche decennio le menti migliori dell’umano pensiero scrivono e pubblicano in inglese. È facile trasferire a questa lingua le virtù di chi la usa: è un inganno in cui

sono caduti nel tempo scienziati e, scrittori e artisti. Solo una buona conoscenza delle alterne  vicende della storia può aiutarci a conservare un giudizio più saldo, liberandoci dagli improvvidi pregiudizi che di tempo in tempo incoronano una lingua, relegando le altre al ruolo di idioma domestico.

Chi regge le sorti dell’istruzione dovrebbe meditare sulle parole indirizzate da Antonio de
Nebrija a Isabelita di Spagna nel 1492:
“siempre la lengua fue compañera del imperio”;  la lingua fu sempre compagna dell’impero, e in tal modo la seguì, perché insieme cominciarono, crebbero e fiorirono, e infine, insieme, giunse la caduta per entrambi.

La recentissima creazione di un supplemento bilingue inglese-italiano della famosissima rivista Nature (Nature Italy) rappresenta un segno importante del mutamento dei tempi favorito dalla informatizzazione delle informazioni. Conviene dedicare attenzione a questi problemi perché certe scelte che appaiono all’inizio fortemente premianti, possono cambiare rapidamente di segno sotto la spinta della storia e del progresso tecnologico.

Speriamo che le polemiche di questi giorni possano finalmente suscitare un dibattito sano attorno a una questione linguistica che diventa sempre più urgente per il futuro del nostro Paese e del suo contributo al mondo del sapere.


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