Anglicismi? No reason di preoccuparsi, finché non è syntax

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Mi sono imbattuto di recente in un sito molto interessante, Linguisticamente.org, fondato da due linguisti generali dell’Università di Bologna. Il sito vuole essere uno strumento per spiegare cosa fanno i linguisti, a cosa serve la linguistica e che impatto ha sulle vite delle persone. Vi si trovano molti articoli ben scritti.

Un articolo in particolare ha subito attirato la mia attenzione. Un “pezzo” natalizio, corredato in copertina da una bella scritta Merry Christmas. Ora, per quanto l’approccio generale dichiarato dal sito sia quello di essere neutrale e di fornire semplicemente un punto di vista scientifico, mi è parso subito evidente che quell’articolo non fosse poi così neutrale. Il suo titolo è: “Chi ha paura dell’inglese?” e lo si trova pubblicato nella sezione “Miti da sfatare”. Su facebook l’articolo viene introdotto da questo testo:

Vi è mai capitato di imbattervi in articoli, post o interventi che mettono in guardia dall’ormai inevitabile invasione dell’inglese? In disperati appelli per la salvaguardia della nostra bella lingua italiana, a quanto pare ormai agonizzante? Ebbene, se vi siete spaventati, abbiamo una buona notizia per voi: la morte dell’italiano non è poi così imminente. Sperando di farci così passare un Natale più sereno, Nicola Grandi ci spiega perché dovremmo vedere il fenomeno degli inglesismi in italiano sotto una luce diversa e ridimensionare gli allarmismi.

Dunque si parla di paura e di allarmismo da ridimensionare. Dove la paura da ridimensionare è quella di un impatto forte dell’inglese sulla salute e la vitalità dell’italiano. Paura che, pur cercando di non essere allarmista, io condivido.

Vediamo allora come il buon Grandi mi rassicura.

L’autore comincia facendo alcune premesse generali. La prima è che di questo argomento hanno già scritto in molti, e rimanda a uno degli ultimi articoli di Tullio De Mauro pubblicato su Internazionale. Benissimo.
La seconda è che qualunque discussione deve basarsi su dati numerici scientifici e certi mentre, scrive, l’idea che ci si fa leggendo commenti sulle reti sociali contrari all’abuso di anglicismi è che siano dettate “da impressioni ed esperienze personali”. Qui inizio a storcere il naso. Esiste un enorme lavoro, ripreso anche qui su Italofonia.info, realizzato da Antonio Zoppetti che dal 2017 ha raccolto e pubblicato dati presi dallo spoglio dei principali dizionari italiani, dall’analisi dei testi della stampa e da altre fonti, dettagliandoli e commentandoli. I dati esistono da anni, ma il nostro “linguista generale” evidentemente non ne è a conoscenza e non ha ritenuto di doversi informare prima di scrivere l’articolo. Ottimo approccio, Nicola!

La terza premessa, infine, sfodera uno dei luoghi comuni più diffusi sul tema degli anglicismi: “voglio osservare ciò che essi fanno spontaneamente”. Questa spontaneità è una pia illusione, dato che sappiamo bene che esistono modelli linguistici che influenzano continuamente i parlanti. E oggi questi modelli fanno tutti amplissimo uso di anglicismi: mezzi d’informazione, mondo professionale, mondo economico, scientifico, persino le istituzioni politiche, ormai. Ma tant’è.

L’analisi che segue è lucida e a mio avviso correttissima. L’autore inquadra il fenomeno del ricorso agli anglicismi come fenomeno sociale: il problema, più che l’italiano è l’Italia (e gli italiani), perché ” Nel nostro paese non c’è forse la convinzione che tutto ciò che viene fatto oltre i confini sia, di default, migliore di quello che facciamo all’interno dello stivale (isole comprese)? ” Giustissimo. L’abuso di anglicismi sembra essere frutto di un gigantesco complesso d’inferiorità complessivo, di cui la lingua è solo una conseguenza.

E il Nostro prosegue sicuro sulla sua strada, con giuste osservazioni: “occorre chiedersi per quale ragione così tanti parlanti preferiscano ricorrere a prestiti da un’altra lingua per esprimere concetti per i quali avrebbero a disposizione parole italiane” prima di pensare alle alternative. Vai Nicola!
Ma sul più bello, eccolo incespicare sul luogo comune di cui nella premessa… il mito della spontaneità: “raramente i parlanti fanno quello che viene loro imposto e suggerito, soprattutto in contesti familiari e poco sorvegliati, cioè nelle situazioni in cui la lingua è più viva e più interessante. I parlanti fanno quello che si sentono di fare, usano le forme che reputano più adeguate, soprattutto nell’ottica di una maggiore e migliore affermazione sociale”. Noooo… stavi andando così bene!

Non che sia del tutto sbagliato ma, come scrivevo più sopra, questi anglicismi da qualche parte arrivano. Mia suocera che – pur giovanile e in gamba, eh! – ha passato i 60 anni, dallo scorso aprile non usa altra parola se non “lockdown” ma (non per colpa sua) non ha idea che derivi da “to lock down” né che cosa significhi esattamente. Lo sente e lo legge nelle notizie e, com’è naturale, lo ripete. Sinceramente non credo che così facendo cerchi di elevare il suo status sociale, semplicemente l’ha imparata come parola nuova, che si è imposta tramite la scelta di giornalisti (tardiva, dato che è arrivata a metà marzo quando eravamo già chiusi in casa da tre settimane). Non una scelta quindi, dato che le alternative (blocco totale, chiusura, quarantena) si sono sciolte come neve al sole all’arrivo dell’anglicismo. Allo stesso modo mio papà, anche lui non più di primo pelo, conversando con me su un servizio del telegiornale mi avrà ripetuto dieci volte la parola “pusher” per poi chiedermi: “Ma… il pusher è quello che spaccia la droga, giusto?”. L’aveva intuito ma non ne era sicuro, dato che nel servizio “spacciatore” non era stato usato mai. Solo l’anglicismo. Anche qui, volontà di sembrare il più cool degli ultra-settantenni? No, ripeteva ciò che aveva sentito. Quindi, ah Nicò, piantiamola con ‘sto mito della spontaneità delle scelte.

Ma ecco il nostro eroe lanciarsi in paragoni arditi per meglio farsi comprendere dal lettore: se l’anglicismo è il sintomo, è inutile agire su di esso, si deve prima eliminare la causa (il complesso d’inferiorità collettivo e le pressioni del mondo globalizzato e dell’influenza economico-politica degli Stati Uniti d’America). Ehm… giusto, per carità, ma magari ci vorrà un po’ e nel frattempo io i sintomi li curerei. Tipo, se ho l’influenza, non è che lascio andare la febbre a 41 perché tanto è un sintomo. Se uno si prende male il coronavirus, mentre il suo corpo lo combatte, se non ce la fa a respirare lo intubano, anche se la mancanza del respiro è una conseguenza del virus e non la causa. Altrimenti crepa. No?

Ma, a proposito, se l’italiano crepasse, interesserebbe oppure no al nostro prode linguista? Dipende: se la lingua è solo uno strumento di comunicazione allora tendenzialmente no, l’importante è che il messaggio arrivi, anche in un italiano ibridato con l’inglese o direttamente in inglese. Se invece la lingua è portatrice anche di un’identità (Ma va?! Dai! 🙂 ) allora vale la pena di “perseguire l’integrità della variante standard-normativa”. Quale di queste due, quindi?

La risposta è….? Rullo di tamburi, tutti in attesa.. oooooooooooooooo…..

Boh! Non è dato sapere. Non qui, non ora: “Questione troppo spinosa e troppo complessa per essere affrontata in queste poche battute”.

Dopo tutto questo disquisire, che doveva ridimensionare gli allarmismi e tranquillizzare il lettore spaventato dai folli neopuristi catastrofisti, ancora non si è capito come mai non ci si dovrebbe preoccupare di un eccesso di anglicismi che a quanto pare c’è, le cui cause sono tra l’altro profonde, radicate in un senso di “sudditanza” culturale verso l’inglese.

Niente paura, il nostro autore ha conservato il pezzo forte per il finale. La notizia che tutti aspettavamo. L’evidenza che ci farà capire che l’italiano, anche se non produce quasi più neologismi autoctoni tanto che sul sito della Crusca tra le parole italiane nuove troviamo “boomer”, “contact tracing” e “cringe”, anche se è sempre più pieno di termini inglesi non adattati che provengono non dal gergo giovanile ma bensì dalle istituzioni politiche (!), anche se lo Stato appoggia in sede legale un’università statale per abolire tutti i corsi magistrali in italiano ed elimina la nostra lingua dal Piano nazionale della Ricerca, l’italiano, dicevamo, non ha nulla da temere. Non c’è da preoccuparsi, gente.

Perché?

Perché… l’influenza dell’inglese tocca solo il lessico!

:-\

Sì, siore e siori, avete inteso bene. Questo è il fatto rassicurante: gli anglicismi sono soprattutto sostantivi e aggettivi, e per di più non toccano troppo il vocabolario di base, come quello per “indicare le parti del corpo” ma invece per fortuna la nostra lingua prende in prestito l’inglese ad esempio “per designare un concetto nuovo” e “il contatto si limita a strati del lessico superficiali e molto ancorati a situazioni contingenti, come nel caso di lockdown” quindi, conclude il nostro eroe “credo si possa tutto sommato stare tranquilli”. Ma certo Nicolone, stamo in una botte de fero, certo che stiamo tranquilli. Metà dei neologismi sono parole inglesi crude, ma cosa vuoi che contino nel mondo di oggi le parole “per designare un concetto nuovo”? Mica viviamo in una società tecnologica dove le innovazioni corrono veloci, dove i tecnicismi invadono il linguaggio comune, no? Chi se ne importa se – al contrario di tutte le altre lingue romanze – non abbiamo nostre parole per dire computer, tablet, social network, password, touch screen, contactless… tranqui raga, diciamo ancora naso, spalla e culo! Siamo salvi!

O per usare le sue parole: “if per caso I avessi scritted this articolo with a different stile and, soprattutto, using many terminis or elements grammaticali inglesi, then sì che it should be the caso of preoccuparsi! Da linguista, suggerirei a tutti un approccio più soft: keep calm, take it easy, in attesa dell’annunciato vaccine day!”

Ahah che sagoma 😀
Se invece avesse scritto l’article con un diverso style e, soprattutto, usando molti terms or tanti English grammatical elements, allora non c’era reason di essere worried. Elementare, don’t you think?

Purtroppo però il nostro Nicola è serio, e lo sono anche molti altri linguisti. Linguisti che pensano che finché ad essere intaccati non sono le strutture sintattiche e grammaticali, si possa dormire sonni tranquilli. Se anche fosse vero, forse sarebbe meglio muoversi prima di arrivare a quel punto, che dite? Se poi questi linguisti devono conteggiare il numero di anglicismi in un testo, lo fanno contando anche congiunzioni preposizioni e quant’altro. E certo! Questo è il metodo scientifico da seguire, e il nostro eroe lo ribadisce anche in un commento: “Le segnalo che preposizioni, congiunzioni, in generale gli elementi funzionali sono proprio quello [che] si guarda quando si deve valutare l’impatto dell’interferenza. Assieme ad altre parole del cosiddetto lessico di base.”

Ora mettiamo alla prova questo metodo scientifico con un esempio banale. Prendiamo un articolo del 2018 di Repubblica. Si intitola: “Volley, Mondiali; Italia a Milano a caccia della Final Six. Blengini: ‘Maturi e umili, avanti così fino alla fine’ “. Diciannove parole, due anglicismi (considerando Final Six come un’unica espressione). Quindi circa il 10%.

Se facciamo lo stesso lavoro sull’intero articolo, il peso di questi anglicismi diminuisce molto, com’è chiaro. Ad esempio la parola Volley ricorre 14 volte (in realtà considerando il solo articolo sono appena 4: le altre occorrenze sono altrove nella pagina):

Quattro volte su un intero testo pieno di italianissime parole (tra cui “e, il, la”), che c’è da preoccuparsi? La percentuale è irrisoria, direbbe sollevato il nostro linguista generale. E neanche un verbo!

Facciamo però un altro esperimento. Proviamo a cercare la parola… pallavolo. Sì quella parola che forse qualcuno di voi ricorda dall’infanzia.. “Mila e Shiro, due cuori…” ricordate? Ecco, cerchiamola in questo articolo, che parla proprio di quello sport lì:

E il risultato è… zero!

Quindi, ricapitolando, questo è un articolo in italiano che parla di pallavolo dove la parola pallavolo non c’è MAI.

Sostituita dalla parola inglese “volley” (anche se a dirla tutta il nome del gioco in inglese è volleyball, ma a noi italiani piace abbreviare). Non solo. Pur ricorrendo solo quattro volte nell’articolo, anche all’interno della locuzione Italvolley per indicare la nazionale di pallavolo, troviamo questo anglicismo in alto, nel nome della sezione dedicata a questo sport. Il nome del contenitore degli articoli di pallavolo è “Volley”. La troviamo anche nel titolo e nei titoli di altri articoli simili, visibili in basso a destra. La ritroviamo pure nelle etichette, i cosiddetti tag che raggruppano gli argomenti: volley, italvolley, mondiali volley. Et volley..ehm.. ops.. et voila !

Il metodo del pallottoliere dei nostri linguisti ci dice che qui non è successo nulla di preoccupante. In realtà qualcosina è successa. Qualcosina tipo che il nome italiano di questo sport, in uso per decenni, in questo sito è scomparso. Un sitarello da niente neh… uno dei quotidiani più letti d’Italia, che vuoi che sia. Il parlante è indipendente e spontaneo, al massimo usa volley per innalzare il suo status sociale mentre beve il bianchino al bar, noi limitiamoci a registrare e non allarmiamoci.

Capite che invece io un po’ preoccupato lo sono. Non perché voglia estirpare ogni singolo forestierismo crudo dall’italiano, non perché creda che possa o debba esistere una lingua “pura”. Ma perché ci sono segni abbondanti e chiari che noi stiamo rendendo, con le nostre scelte linguistiche, l’italiano una lingua sterile, una lingua sempre più ibridata con l’inglese, con formule miste spesso molto difficili da capire. Qualche giorno fa un annuncio su Facebook mi comunicava: “Master in heritage innovation, prorogata la deadline per agevolazioni early bird”. Testuali parole. Ma soprattutto sono preoccupato dal fatto che c’è ancora gente che è convinta che basti il pallottoliere, che se tutti i sostantivi e gli aggettivi diventassero inglesi ma le particelle e la struttura no, la nostra lingua sarebbe ancora tale e quale.

Non voglio mancare di rispetto all’autore dell’articolo, che mi sono permesso di prendere un po’ in giro scherzosamente copiando il dichiarato stile “molto poco politically correct” del suo articolo, né alla sua categoria professionale. Ho sostenuto con entusiasmo l’esame di linguistica generale all’università (troppi anni fa ahimè) e stimo molto il lavoro di studio e ricerca dei linguisti. Ma bisogna uscire dagli studioli e calarsi nel mondo, adattare il metodo e metterlo, come comunità scientifica di una delle scienze umane più interessanti, in discussione. Alla prova dei fatti. E se davvero si tiene alle lingue come segno di ricchezza e diversità, avere il coraggio di dire, senza allarmismi ma anche senza fare i negazionisti, che un problema c’è. Si decida se vale la pena di affrontarlo o no.

Amici linguisti e non, notiziona: il mondo, volenti o nolenti, è e resterà a lungo plurilingue. Forse vi stupirà ma i miliardi di persone che non sono di madrelingua inglese (cinese, giapponese, spagnolo, arabo, francese, portoghese…) non hanno intenzione di rinunciare alla propria lingua né di riempirla di parole inglesi copiate e incollate. L’inglese lo si studia semmai come lingua seconda, non si fa un mischione creando un ibrido incomprensibile. E allora in questo contesto dobbiamo capire e decidere se alla nostra lingua ci teniamo, oppure no. Se sì, dobbiamo fare qualcosa di concreto, ognuno nel suo uso quotidiano, ognuno a seconda del suo ruolo, per conservarla viva e creativa. Adatta al mondo di oggi e di domani.

 


P.S: Ho usato il termine anglicismo che qualcuno dice essere un… anglicismo. C’è chi dunque, come faceva De mauro, preferisce “anglismo”. Piccola nota: come ricorda anche Zoppetti in un suo scritto, pur se qualche linguista preferisce questa versione, va detto che la forma più diffusa tra gli studiosi (e non solo), che si ritrova anche sul sito dell’Accademia della Crusca o sulla Treccani, è invece “anglicismo”. Lo Zingarelli definisce anglismo (datato 1970) una forma rara per anglicismo (datato 1747), e il Devoto Oli lo considera una variante (datata ugualmente nel 1970) della seconda forma (datata invece nel 1829) che deriva a sua volta dal francese anglicisme e questo dal latino medievale anglicus, “anglico”. Quindi anglicismo è un termine più antico e derivato probabilmente dal francese e non dall’inglese. Ma chiamiamolo come vogliamo, non fa differenza.

 

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