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Qualche settimana fa il presidente russo Vladimir Putin ha firmato una legge riguardante l’uso della lingua russa nella pubblica amministrazione. In particolare, il testo dice che «quando si utilizzerà la lingua russa come lingua di stato, non sarà consentito l’utilizzo di parole ed espressione che non corrispondano alle norme della lingua letteraria russa moderna». La legge specifica che verranno introdotti dei dizionari guida per le eccezioni, ovvero «le parole straniere che non hanno analoghi termini nella lingua russa e il cui elenco è raccolto dai dizionari normativi». L’obiettivo è promuovere il corretto uso della lingua a tutti i livelli della pubblica amministrazione.
Alcuni mesi prima era stata varata un’altra legge, volta a promuovere cartoni animati e film legati agli eroi della tradizione russa: «Qui Batman è noto, ma alcuni dei nostri eroi no. Dovrebbero invece essere nei cartoni animati, nei film, nella letteratura per bambini. Fin dall’infanzia è necessario abituarsi a conoscere gli eroi epici russi e, non solo i personaggi dei fumetti americani», aveva dichiarato Putin.
Queste iniziative, giunte nel contesto dell’invasione russa in Ucraina e della conseguente guerra, sono state commentate sulla stampa italiana accostandole alle politiche fasciste di guerra ai barbarismi e italianizzazione forzata nei nomi. Il quotidiano Domani, del 12 marzo scorso, ospita un articolo del linguista e saggista Raffaele Simone intitolato “L’illusione di poter bonificare la lingua della nazione”. Chiariscono le posizioni dell’articolo già l’occhiello (La differenza tra cocktail e arlecchino) e il sommario (Putin ha annunciato una legge per vietare i termini stranieri, Giorgia Meloni prova a imporre “nazione” al posto di “paese”. Hanno dimenticato i tentativi ridicoli e fallimentari del fascismo di italianizzare tutto).
Il paragone con quanto avvenuto in Russia e la scelta di Meloni di usare sempre la parola nazione invece di paese (concetti non completamente sovrapponibili) ci sembra azzardato, così come in linea di principio non contestiamo il diritto a non conoscere unicamente gli eroi popolari di altri paesi ma anche quelli della propria storia e tradizione. Naturalmente il punto è che uso ne fa la propaganda di un regime autocratico come quello della Russia di oggi. Ma il nodo centrale che vogliamo affrontare è un altro.
Vogliamo fare chiarezza, perché il rischio è di continuare ad associare le politiche linguistiche esclusivamente a ciò che fece il fascismo. E dato che a nostro giudizio l’italiano, oggi, avrebbe un gran bisogno di una politica a sua tutela, ci teniamo ad approfondire ancora una volta il tema.
Concordiamo senza dubbio sul fatto che le lingue pure non esistono, che da sempre si contaminano tra loro secondo i contatti tra i popoli che le parlano, e questo è uno dei motori che muove l’evoluzione delle lingue, com’è naturale che sia. Ma attenzione a fare di tutta l’erba un fascio (nessuna allusione, precisiamo). La politica linguistica, in sé, non ha nulla di sbagliato né di immorale o violento. Possono esistere politiche linguistiche più liberali e più autoritarie, esattamente come per le politiche estere o interne. Naturalmente le dittature avranno politiche dittatoriali, siano essere interne, estere o linguistiche. E allora il fascismo, come ricorda giustamente Simone, intraprese una lotta ai “barbarismi”, inaspritasi durante la guerra, che puntava a ripulire la lingua imponendo traduzioni dall’alto. Il principio di imporre e vietare parole è sbagliato. Ma molte parole introdotte in quel periodo hanno attecchito, e oggi noi diciamo autista, regista o centroavanti senza porci troppo problemi, sono vocaboli entrati nella lingua.
Se l’articolo di Simone ricorda giustamente i soprusi del regime mussoliniano in Alto Adige, dove si vietò la lingua tedesca e si arrivò alla italianizzazione forzata persino dei cognomi, è giusto ricordare anche che contro questi soprusi oggi nella Provincia autonoma di Bolzano vige una politica linguistica, contenuto nello statuto locale, che tutela la lingua tedesca accanto a italiano e ladino. Allo stesso modo nei comuni costieri dell’Istria oggi slovena e croata, vige una politica linguistica a favore della minoranza storica di lingua e cultura italiana. In Alto Adige la lingua francese è tutelata come lingua storica, anche se di fatto oggi i madrelingua francesi in quella vale non abitano più. Un po’ come se si co-ufficializzasse l’italiano in Corsica.
Le politiche linguistiche sono anche questo: tutelano la lingua delle minoranze. O anche delle maggioranze. Questo è il caso della Francia, che esprime la propria politica linguistica con la famosa “legge Toubon” del 1994. Una legge che in Italia spesso viene raccontata come un “divieto delle parole inglesi”, frutto dello “sciovinismo francese”, ma che nello spirito vuole preservare il multilinguismo e garantire chiarezza e trasparenza ai propri cittadini. In Francia, a differenza che in Italia, non può accadere che un dipendente sia costretto a firmare un contratto di lavoro scritto interamente ed esclusivamente in inglese, o a frequentare in inglese i corsi sulla sicurezza. Non può accadere che un anziano, durante la pandemia da Covid-19, legga in un supermercato un sibillino cartello “Articoli non food non in vendita”. Non accade perché esiste un “diritto al francese”, che è lingua di uso comune nella Repubblica.
Se esiste un diritto al francese, devono esistere parole francesi da utilizzare, per esprimere ogni concetto, compresi quelli più nuovi. Ciò che non succede più nella nostra lingua, dove sempre più spesso ci mancano le parole perché abbiamo scelto di non crearle più. Abbiamo scelto di copiare e incollare i concetti ormai quasi da un’unica lingua, l’inglese. E allora mentre i francesi possono scegliere se dire PC o ordinateur, noi abbiamo solo computer, loro possono scegliere tra mot de passe e password mentre noi abbiamo solo quest’ultima, abbiamo solo contactless, lockdown, online, account, e via discorrendo. La politica linguistica può favorire la creazione di neologismi o l’adattamento di parole straniere, e quindi dare al parlante più libertà di scelta.
Perché alla fine, è vero, la lingua “la fanno i parlanti”. Ma la libertà dei parlanti è correlata alla libertà di scelta, alla varietà di parole tra cui scegliere.
Dunque stiamo bene attenti a non confonderci. Il problema non è la politica linguistica, ma è semmai la politica autoritaria. Di qualunque materia si occupi e chiunque sia il dittatore o l’autocrate, si chiami Benito o Vladimir, che la promuove.
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Copertina: foto da publicdomainpictures.net
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