L’italiano è meraviglioso (e perché dovremmo rendercene conto)

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L’italiano è meraviglioso è un libro a sua volta meraviglioso, scritto con un rigore e allo stesso tempo una chiarezza in grado di raggiungere e soddisfare tutti, il pubblico più ampio che in saggi come questi cerca la divulgazione, e gli addetti ai lavori che trovano riflessioni acute e illuminanti sul “futuro piuttosto buio” della nostra lingua. È anche un libro importante, perché Claudio Marazzini è il presidente dell’Accademia della Crusca, e le sue parole si caricano di un’autorevolezza significativa.

Il sottotitolo “Come e perché dobbiamo salvare la nostra lingua” suona allarmante. La nostra lingua è dunque in pericolo? E quali sono i rischi che corre?

Di allarmi sulla sua decadenza, spesso facili, beceri o improntati a un purismo ormai antistorico, ne sono stati lanciati tanti in ogni epoca. Le considerazioni che si trovano in questo libro sono invece lucide e moderne, e la questione più attuale è quella dell’interferenza dell’inglese nell’era della globalizzazione.



Non c’è solo un’inevitabile analisi dello straripare degli anglismi nell’italiano, spesso inutili o immotivati. Marazzini ci ricorda anche che, davanti alla “dittatura dell’inglese”, ciò che avviene in Francia e in Spagna non è paragonabile a quanto accade da noi, “i cedimenti sono minori”, non solo per il “consenso di gran parte della popolazione attorno ai valori di cui la lingua nazionale è portatrice”, ma anche per la sensibilità della politica. È significativa in proposito la citazione della polemica tra Marine Le Pen ed Emmanuel Macron proprio nello scontro finale per la campagna elettorale alla presidenza: si sono scontrati sulle accuse di non voler proteggere il francese, qualcosa di inaudito in Italia. Anche la Germania ha messo in atto la promozione del tedesco in forme molto efficaci, rispetto a noi, spiega l’autore. E in questo quadro sottolinea un’ulteriore differenza a nostro sfavore: l’italiano è una lingua giovane, storicamente una “lingua senza impero” che solo da poco più di un secolo si muove nel palcoscenico dell’unità nazionale.

E allora occorre cambiare rotta: “Non ci serve una classe dirigente che, per affrontare i problemi dell’Italia, abbia la testa soltanto rivolta verso l’estero. Non ci serve una classe dirigente malata di inguaribile esterofilia provinciale”. Questo tipo di internazionalismo è “autolesionista” occorre invece “coltivare il plurilinguismo”. Forse un po’ di esterofilia che ci facesse emulare gli esempi più virtuosi di Francia, Spagna e Svizzera, mi permetto di aggiungere, non guasterebbe. Il punto è che la nostra esterofilia, oggi, coincide sempre più con i modelli linguistici dell’angolamericano.

 

L’inglese planetario è uno dei perni di questo libro, e un altro aspetto pericoloso  riguarda il suo ruolo nell’insegnamento nell’università. Viene ripercorsa la vicenda del Politecnico di Milano che aveva cercato di estromettere l’italiano per introdurre i corsi solo in lingua inglese, e poi la sentenza del Tar che ha bocciato questa decisione, e anche la successiva sentenza della Corte Costituzionale che ha ridimensionato la sentenza del Tar, introducendo il principio di ragionevolezza. Le tematiche attualissime legate a questo che è uno dei nodi cruciali sul destino dell’italiano passano poi per alcune vicende che coinvolgono il Miur (il Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca) e i bandi per i finanziamenti universitari che nel 2017 dovevano essere presentati in lingua inglese. Marazzini entra in profondità sui precedenti, pone la questione importantissima della differenza tra didattica e scienza, due concetti che non si possono confondere nell’affrontare il problema dell’insegnamento nella scuola, analizza, contrasta e confuta molte delle posizioni dei “nemici dell’italiano” che si annidano anche tra gli scienziati.

 

Il libro è ricco anche di ben altri temi che riguardano l’evoluzione della nostra lingua nel nuovo Millennio, dai neologismi come webete o lo spesso travisato caso di petaloso, alla femminilizzazione delle cariche (sindaca, ministra…),  e chiarisce molti dubbi spinosi che attanagliano tutti: se stesso o sé stesso? Familiare o famigliare? E poi i “verbi trappola”, indissero o indirono? Malediamo o malediciamo? I numerosi esempi della lingua di oggi, come il gli al posto di loro o il nuovo uso dilagante di “piuttosto che”, vengono passati in rassegna, tra norma e cambiamento, tra “grammatica inconscia” e storia della lingua, all’insegna di un punto fermo importantissimo: come la lingua dovrebbe cambiare senza tradire il passato.

Una lettura utile, interessante, attuale e piacevole che ci insegna che “finché c’è lingua c’è speranza”.

 


Antonio Zoppetti

 

 

 

 

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