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Gli studenti universitari italiani, pur conoscendo le regole della propria lingua madre, non sarebbero in grado di scrivere un testo complesso. Lo rivelano i risultati di uno studio condotto dal linguista Nicola Grandi dell’Università di Bologna, che con dati statistici conferma i timori che da anni i docenti esprimono circa la padronanza dell’italiano da parte delle ultime generazioni.
Il 4 febbraio del 2017 seicento professori italiani inviarono una lettera al presidente del consiglio, al ministro dell’istruzione e al parlamento dal titolo “Contro il declino dell’italiano a scuola” denunciando le carenze linguistiche dei loro studenti (grammatica, sintassi, lessico) “con errori appena tollerabili in terza elementare”.
Lo studio dell’ateneo bolognese, avviato nel 2019, con metodologie e strumenti statistici in un quadro unitario che integri le prospettive sociolinguistica, sociologica e didattica, ha studiato l’italiano degli studenti universitari con lo scopo di tracciare un quadro esaustivo del loro italiano scritto, formale e informale e condurre un’analisi fondata su dati reali e scientificamente solida sulla base della quale elaborare proposte di intervento didattico.
La ricerca ha coinvolto un campione di 2137 di studenti di 45 atenei divisi per altrettante aree (umanistica, sociale, scientifica e sanitaria) per la redazione di un testo (dal limite massimo di 500 parole).
“Quello che è emerso e più preoccupa – dichiara Grandi a Repubblica – non ha a che fare tanto con ortografia e lessico, le capacità espressive sono in realtà piuttosto omogenee, ma con la difficoltà di costruire contenuti complessi. Un campanello di allarme è il fatto che il 50% degli errori sia relativo alla punteggiatura. Altra evidenza è la poca predisposizione all’uso di frasi subordinate, ulteriore conferma che ciò che manca sia la capacità di maneggiare la lingua in modo articolato. Un’analisi che per quanto mi compete si ferma qui, ma i tanti studi sulle correlazioni tra linguaggio e pensiero aprono altri scenari”.
Una delle cause, secondo il ricercatore e docente, potrebbe essere l’influenza che la scrittura in Rete (i forum prima e poi le reti sociali e le applicazioni di messaggistica istantanea) ha avuto sulla produzione scritta dei più giovani, rendendola più informale e frammentaria.
Quel che possiamo aggiungere da parte nostra, è che la scuola dell’obbligo sembra aver abbandonato gran parte degli strumenti che rendevano la padronanza dell’italiano più solida, dall’analisi della grammatica alla scrittura dei temi, che in gran parte degli istituti – ormai autonomi e non più legati a programmi statali ma al massimo a più blande linee guida – è stata molto ridotta, fino agli scarsi incentivi che vengono dati alla lettura di racconti, romanzi e saggi. L’ultimo episodio emblematico del ruolo subordinato che la lingua italiana ha nell’insegnamento scolastico è l’arrivo dell’inglese come costante punto di paragone in una nota grammatica per le scuole superiori. Questo favorisce la percezione, tra studenti e genitori, che l’italiano non sia poi una lingua importante, che ciò che conta è usarla per arrivare a imparare bene l’inglese, l’unica lingua che davvero garantisce successo negli studi e nel lavoro.
Ora, tutto ciò è semplicemente falso. Se nessuno può negare il ruolo che l’inglese ha nel mondo globalizzato di oggi e che lo rende utile per tutti e importantissimo per molti, non dobbiamo dimenticare che esso resta una lingua straniera per gli italofoni così come per il 95% degli abitanti del pianeta. E il primo requisito per apprendere bene una lingua straniera è conoscere saldamente quella madre, nel nostro caso l’italiano. La lingua madre è anche lo strumento privilegiato per apprendere qualsiasi altra materia, mentre invece in Italia si abusa del CLIL, che porta all’insegnamento di interi argomenti di materie importanti solo in lingua inglese, e si sta progressivamente anglificando il sistema universitario. Scelte ideologiche che nessun altro grande Paese industrializzato sta seguendo, perlomeno in questa misura e senza un dibattito interno serio. Checché il rettore della Bocconi ne dica, Spagna, Francia e Corea del Sud, che hanno percentuali di laureati ben superiori a quelle italiane, non si sognano minimamente di obbligare i propri studenti a studiare e comunicare solo in inglese con i propri docenti. E incentivano anche gli studenti stranieri ad apprendere la lingua locale, in modo da legarli al proprio Paese e attrarli nel proprio sistema economico-produttivo. Invece l’Italia punta acriticamente su un “inglese sempre e comunque” che pure i più piccoli Paesi scandinavi e l’Olanda stanno rimettendo in discussione. Infine, per lavorare in Italia (o con l’Italia, nel 2022 nona economia del mondo, nel 2023 ottava) l’italiano resta indispensabile.
La lingua italiana e il suo insegnamento devono tornare al centro del sistema educativo. Occorre che lo stato se ne occupi, non solo prendendo in considerazione la revisione dell’attuale modello scolastico e universitario e muovendosi verso una politica linguistica organica in favore dell’italiano in Italia, ma soprattutto facendo opera di sensibilizzazione costante sul valore del padroneggiare la propria lingua nei confronti, di studenti, famiglie e docenti. Questo è l’appello che noi di Italofonia ci sentiamo di fare, e che non smetteremo di ripetere.
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Copertina: foto di Yan Krukau via Pexels
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Un pensiero su “Italia, peggiorano le competenze di italiano nelle nuove generazioni. Lo rivela uno studio sugli universitari”
Ottimo anche questo articolo. Peccato che ci leggiamo fra noi…
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