La nuova grammatica “coloniale” dell’italiano comparato con l’inglese

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Fino a poco tempo fa i libri di grammatica italiana facevano riferimento soprattutto al latino, da cui discendono le lingue neolatine nostre “sorelle”, denominate più frequentemente romanze, una preferenza terminologica che – chissà – forse nasconde proprio una sorta di rimozione freudiana del latino. Oggi siamo però davanti a una svolta: in una grammatica di successo per le scuole superiori (di Serianni, Della Valle e Patota, Pearson editore), per esempio, i confronti sono fatti con l’inglese. La motivazione è perché è “ormai presente in ogni scuola italiana, oltre che nella vita di tutti i giorni”.

L’insegnamento del latino è stato abolito nella scuola media già nel 1977, perché fu considerato, soprattutto dal Pci, una lingua elitaria e obsoleta. Venendo invece alle lingue moderne, dopo le tre “i” degli anni Novanta (Inglese, Internet e Impresa) che guidavano i principi della riforma scolastica dell’era Berlusconi-Moratti, negli anni Duemila l’obbligo di insegnare una lingua straniera, che un tempo prevedeva una scelta, si è trasformato nell’obbligo dell’inglese, introdotto sin dalle elementari e, fuori dalla scuola, con la riforma Madia è divenuto un requisito obbligatorio anche per l’assunzione nella pubblica amministrazione. Se un tempo l’italiano era la materia centrale delle scuole, anno dopo anno ha perso questo ruolo trainante, e le nuove generazioni lo conoscono sempre meno.

L’affermazione dell’inglese globale non avrebbe bisogno di essere sostenuta né difesa, è già forte e inarginabile, e purtroppo entra in conflitto con le lingue locali facendole regredire in almeno due modi. Sul piano interno si anglicizzano ogni giorno di più. Se in Italia assistiamo all’emergere di una “newlingua” ibrida definita itanglese, tutto ciò in Francia si chiama franglais, in Germania Denglisch, ma non c’è quasi Paese che non abbia coniato analoghe definizioni per descrivere le contaminazioni locali che generano lo spanglish (per lo spagnolo), il konglish (coreano), lo swinglish (svedese), il runglish (russo) e altri casi di ibridazioni segnalati da Tullio De Mauro in un articolo che ha riconosciuto l’attuale “tsunami anglicus” come un avvenimento di portata planetaria.

Sul piano internazionale, allo stesso tempo, il progetto di far diventare l’inglese la lingua dell’umanità presuppone una gerarchia che fa regredire gli idiomi locali e ci sta conducendo a una nuova diglossia medievale. Se un tempo la lingua della cultura era il latino dei dotti, inaccessibile ai poveri e agli ignoranti che si esprimevano in volgare, oggi è l’inglese che ha assunto questo ruolo. L’inglese non è però qualcosa di neutrale, come potrebbe esserlo l’esperanto, è la lingua naturale dei popoli dominanti, a differenza del latino che era una lingua di intermediazione che poneva tutti sullo stesso piano proprio perché non era la lingua madre di nessuno. Mentre nei piani bassi il latinorum degli azzeccagarbugli si sostituisce con l’inglesorum, in quelli alti l’angloamericano è diventato la lingua della scienza e della cultura, in molte università si estromettono le lingue nazionali per insegnare direttamente in questa lingua, e anche nell’Ue guadagna terreno su tutti gli altri idiomi, in sempre più ambiti, benché sia di fatto una lingua extracomunitaria e sia compresa solo da una minoranza della popolazione europea e mondiale. E così, mentre mezzo mondo investe miliardi per insegnare l’inglese ai propri cittadini e convoglia gli introiti che ne derivano (dai soggiorni studio al giro di affari delle certificazioni e dell’editoria) verso i Paesi anglofoni, questi ultimi non devono sobbarcarsi simili costi, mediamente non studiano altre lingue e godono dei vantaggi che l’adozione della loro lingua comporta (dal controllo del flusso delle informazioni ai mercati editoriali).

Questa anglificazione affonda le sue radici in un disegno di stampo imperialista e coloniale che è stato lucidamente teorizzato per esempio da Churchill. In un primo tempo lo statista aveva sposato il progetto del Basic English, una riduzione dell’inglese basata su un numero abbastanza limitato di vocaboli (850) e su una semplificazione della grammatica che nasceva con intenti colonialistici per perseguire i propri interessi economici: poteva essere insegnato con meno difficoltà dell’inglese naturale alle popolazioni delle colonie e serviva allo stesso tempo per gettare le basi dell’apprendimento dell’inglese vero. Lo scopo dichiarato era quello di farlo diventare la lingua internazionale di scambio da impiegare appunto in contesti scientifici o commerciali. Ma presto questo disegno – che non aveva dato risultati brillanti – venne accantonato per passare a una soluzione ancora più radicale, quella di esportare la lingua inglese nella sua interezza, perché: “Il potere di dominare la lingua di un popolo offre guadagni di gran lunga superiori che non il togliergli province e territori o schiacciarlo con lo sfruttamento. Gli imperi del futuro sono quelli della mente” (Discorso agli studenti di Harvard, 6 settembre 1943).

Nel nuovo Millennio questo disegno si è ulteriormente concretizzato grazie all’espansione delle multinazionali soprattutto statunitensi e a una globalizzazione che coincide sempre più con l’americanizzazione del mondo. Ma anche noi, dall’interno, lo abbiamo sposato in modo acritico senza mai metterlo in discussione, e siamo in prima linea nel difendere e istituzionalizzare proprio la lingua che costituisce una minaccia per la nostra.

E così persino i libri di grammatica si riscrivono in un’ottica anglocentrica. I nuovi testi “coloniali” della scuola superiore del Duemila pongono l’inglese al centro delle loro comparazioni, e introducono i richiami a “come si dice in inglese”. Il presupposto sembra quello di insegnare l’italiano per comprendere l’inglese e di conoscere l’inglese per studiare l’italiano.

In un modello plurilinguista un po’ più democratico e meno miope, nell’insegnamento dell’italiano si potrebbero fare analogie ben più calzanti con il latino o con quanto avviene nelle nostre lingue sorelle, come il francese o lo spagnolo, magari per sottolinearne le affinità. Ma oggi il latino non lo studia più nessuno, e le altre lingue nemmeno. L’inglese ha fatto tabula rasa di tutte le altre lingue “inferiori” ed è diventato il solo parametro di riferimento in un’idolatria della lingua unica con cui si vorrebbe ricostruire la torre di Babele. Questo approccio spacciato per “la” modernità, non è neutro, è un pesante cambiamento di prospettiva volto a costruire una modernità anglomane che si vuole legittimare e istituzionalizzare, invece che analizzare in modo critico, sia dal punto di vista etico-culturale sia da quello delle nefaste conseguenze che produce. È una concezione che tende a esaltare come “internazionale” ciò che è invece soltanto “anglofono”, e a confondere volutamente questi due concetti molto diversi. Siamo all’interno di una cultura coloniale, e a quanto pare ci sguazziamo contenti, alla faccia del rispetto per la varietà delle culture, del pluralismo, della storia e delle nostre radici. Abbiamo sposato in modo servile e acritico la “dittatura dell’inglese” invece di schierarci con il plurilinguismo, che non è solo un valore e una ricchezza, ma anche il solo principio che può proteggere l’italiano, insieme alle altre lingue.

Quando subito dopo l’unificazione dell’Italia rimaneva il problema di unificare anche la lingua, visto che fuori dalle aree centrali del Paese tutti si esprimevano nel proprio dialetto, nacque una vasta produzione di dizionari e testi scolastici basati sui confronti tra italiano e dialetti, perché i dialetti erano visti come la lingua-ponte necessaria per insegnare l’italiano unitario. Oggi, mentre si vuole creare l’inglese unitario spacciato come la lingua di tutto il globo, le grammatiche di questo tipo puntano forse a usare l’italiano come lingua-ponte per la diffusione e l’affermazione del globish. E così il confronto si fa con questa lingua strutturalmente diversa, che viene affiancata alla nostra grammatica in modo forzato per educare ed evangelizzare le future generazioni a un bilinguismo a base inglese che è la causa della regressione dell’italiano, e lo rende un dialetto di un anglomondo che pensa e parla in inglese.

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Un pensiero su “La nuova grammatica “coloniale” dell’italiano comparato con l’inglese

  1. Veramente interessante e lucido questo articolo!
    Il sonno della ragione genera mostri… anche linguistici.

I commenti sono chiusi.