Il Presidente emerito Napolitano e la lingua italiana fattore portante dell’identità nazionale

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Si è spento ieri, all’età di 98 anni, Giorgio Napolitano, per due volte Presidente della Repubblica italiana e protagonista della storia politica del Paese. Vogliamo ricordarlo qui con un suo discorso del 21 febbraio 2011, anno che celebrava i 150 anni dall’Unità d’Italia. in occasione dell’incontro su “La lingua italiana fattore portante dell’identità nazionale”.

L’evento, promosso dalla Presidenza della Repubblica con la collaborazione dell’Accademia dei Lincei, dell’Accademia della Crusca, dell’Istituto dell’Enciclopedia Italiana e della Società Dante Alighieri, aveva visto la proiezione di un filmato realizzato da Giovanni Minoli con i materiali d’archivio della Rai, a cui aveva fatto seguito l’intervento del Presidente del Comitato dei Garanti del 150° anniversario dell’Unità d’Italia, Giuliano Amato sul tema “La lingua italiana e l’unità nazionale”. Successivamente gli interventi di Tullio De Mauro su “L’Italia linguistica dall’Unità all’età della Repubblica”, di Vittorio Sermonti su “La voce di Dante”, di Luca Serianni su “La lingua italiana nel mondo”, di Carlo Ossola su “I libri che hanno fatto gli italiani”, Nicoletta Maraschio su “Passato, presente e futuro della lingua nazionale” e Umberto Eco su “L’italiano del futuro”. Le riflessioni sul rapporto tra la lingua italiana e l’identità della nazione erano state intervallate da letture di brani letterari che hanno segnato l’evoluzione della lingua nazionale.

Il Presidente Napolitano aveva pronunciato l’ultimo intervento. Ne riportiamo qui un ampio passaggio:

Si è discusso sulla datazione del configurarsi e
affermarsi di una lingua italiana e del suo valore
identitario in assenza – o nella lentezza e difficoltà del
maturare – di una unione politica del paese.
Senza nascondersi la complessità del tema della
nazione italiana, delle sue più lontane radici e del suo
rapporto col movimento per la nascita, così tardiva, di
uno Stato nazionale unitario, si è messo in evidenza
quale impulso sia venuto dalla forza dell’italiano come
lingua della poesia, della letteratura, e poi del
melodramma al crescere di una coscienza nazionale. Il
movimento per l’Unità non sarebbe stato concepibile e
non avrebbe potuto giungere al traguardo cui giunse se
non vi fosse stata nei secoli la crescita dell’idea d’Italia,
del sentimento dell’Italia. De Sanctis richiama
Machiavelli che “propone addirittura la costituzione di
uno grande stato italiano, che sia baluardo d’Italia contro
lo straniero” e aggiunge : “Il concetto di patria gli si
allarga. Patria non è solo il piccolo comune, ma è tutta la
nazione”. La gloria di Machiavelli – conclude De Sanctis
– è “di avere stabilito la sua utopia sopra elementi veri e
durevoli della società moderna e della nazione italiana,
destinati a svilupparsi in un avvenire più o meno lontano,
del quale egli tracciava la via”.
Quell’avvenire era ancora molto lontano. Secoli
dopo, nella prima metà dell’Ottocento, si sarebbe
determinato – è ancora De Sanctis che cito, dal capitolo
conclusivo della sua “Storia”, – “il fatto nuovo” del
formarsi “nella grande maggioranza della popolazione
istruita”, di “una coscienza politica, del senso del limite
e del possibile” oltre i tentativi insurrezionali falliti,
oltre “la dottrina del «tutto o niente»”.
E se con il progredire della coscienza e dell’azione
politica, si giunge a “fare l’Italia” nel 1861, fu tra il XIX
e il XX secolo, come qui ci si è detto in modo suggestivo
e convincente, che cominciarono a circolare libri capaci
di proporsi “come strumenti di educazione e formazione
della rinata Italia”. Tuttavia, la strada da fare restò
lunga.
A conferma della nostra volontà di celebrare il
centocinquantesimo guardandoci dall’idoleggiare lo
Stato unitario quale nacque e per decenni si caratterizzò,
si è stamattina qui crudamente ricordato come solo nel
primo decennio del ‘900 – nel decennio giolittiano – si
produsse una svolta decisiva per la crescita
dell’istruzione pubblica, per l’abbattimento
dell’analfabetismo, e più in generale, grazie alla scuola,
per un progressivo avvicinamento all’ideale – una volta
compiuta l’unità politica – di una lingua scritta e parlata
da tutti gli italiani. Di qui anche lo sviluppo di una
memoria condivisa nel succedersi delle generazioni.
Dopo quella svolta, il cammino fu tutto fuorché
lineare – in ogni campo d’altronde, per le regressioni che
il fascismo portò con sé. Ed è dunque giusto, nel bilancio
dei 150 anni dell’Italia unita, porre al massimo l’accento
su quel che ha rappresentato l’età repubblicana, a partire
dall’approccio innovativo e lungimirante dei padri
costituenti, che si tradusse nella storica conquista
dell’iscrizione nella nostra Carta del principio
dell’istruzione obbligatoria e gratuita per almeno otto
anni. Molti princìpi iscritti in Costituzione hanno avuto
un’attuazione travagliata e non rapida : ciò non toglie
che essi abbiano ispirato in questi decenni uno sviluppo
senza precedenti del nostro paese e che restino fecondi
punti di riferimento per il suo sviluppo a venire.
Non idoleggiamo il retaggio del passato e non
idealizziamo il presente. I motivi di orgoglio e fiducia
che traiamo dal celebrare l’enorme trasformazione e
avanzamento della società italiana per effetto dell’Unità
e lungo la strada aperta dall’Unità, debbono animare
l’impegno a superare quel che è rimasto incompiuto
(siamo – ha detto Giuliano Amato – Nazione antica e al
tempo stesso incompiuta) e ad affrontare nuove sfide e
prove per la nostra lingua e per la nostra unità. E infatti
anche di ciò si è parlato ampiamente nel nostro incontro
guardando sia alle ricadute del fenomeno Internet sulla
padronanza dell’italiano tra le nuove generazioni sia alle
spinte recenti per qualche formale riconoscimento dei
dialetti. Eppure, a quest’ultimo proposito, l’Italia non
può essere presentata come un paese linguisticamente
omologato nel senso di una negazione di diversità e di
intrecci mostratisi vitali.
Bene, in questo spirito possiamo e dobbiamo
mostrarci – anche presentando al mondo quel che
abbiamo costruito in 150 anni e quel che siamo –
seriamente consapevoli del nostro ricchissimo, unico
patrimonio nazionale di lingua e di cultura e della sua
vitalità ; e seriamente consapevoli del duro sforzo
complessivo da affrontare per rinnovare – contro ogni
rischio di deriva – il ruolo che l’Italia è chiamata a
svolgere in una fase critica, e insieme ricca di promesse,
di evoluzione della civiltà europea e mondiale.
Ho detto “seriamente” : perché in fin dei conti è
proprio questo che conta, celebrare con serietà il nostro
centocinquantenario. Come avete fatto voi protagonisti
di questo incontro. Ancora grazie.

Pochi mesi dopo questo discorso, una delle più prestigiose università pubbliche, il Politecnico di Milano, dichiarò di voler abolire l’uso dell’italiano dai propri corsi di laurea magistrale e di dottorato, definendo i corsi in italiano dei costosi doppioni di quelli in inglese, e dichiarando quest’ultimo “lingua ufficiale dell’ateneo”. Il Politecnico si impegnò in anni di battaglie legali (tutte perse) per poter abolire l’uso della lingua italiana dalle proprie aule, affiancato – non si può dimenticare – dal Ministero dell’Università e della Ricerca, e dunque dallo stesso governo italiano.

I ruoli che furono delle persone presenti in quella sala 12 anni fa, per ascoltare le parole di Napolitano, sono oggi ricoperti da altri. Rivolgiamo allora un appello a loro, all’attuale Capo dello Stato Sergio Mattarella, cui indirizzammo nel 2020 una petizione, al Presidente dell’Accademia Della Crusca Paolo d’Achille e al presidente emerito Claudio Marazzini, affinché facciano di più e meglio per tutelare e promuovere la nostra lingua nazionale. Che ad oggi non viene menzionata nella Costituzione della Repubblica, come invece – da pochi giorni – lo sono lo sport e l’attività fisica.

Il problema della lingua nazionale e della sua tutela non deve più essere trattato con superficialità od indifferenza, come troppo spesso accade in questo mondo che si vuole globalizzare non solo economicamente ma anche culturalmente. Non dobbiamo dimenticare che il nostro patrimonio di lingua e di cultura è unico al mondo, che deve stare al centro del percorso formativo del sistema della conoscenza. Il mondo della Conoscenza e della lingua italiana stanno tra i fattori portanti dell’Unità nazionale. Sempre di più i linguisti denunciano al mondo, ancora sordo, il pericolo d’estinzione delle lingue etniche come una grave minaccia per l’umanità.
La scomparsa degli idiomi nazionali provoca l’eliminazione delle diverse identità, e se una lingua scompare non sono solo le parole a scomparire ma purtroppo anche le cose ed i sentimenti. E in questo processo lungo ma inesorabile, la capacità di pensare s’indebolisce lasciando posto ad una vera decadenza intellettuale. Un popolo che rinuncia alla propria lingua, rinuncia alla sua anima e nel mondo attuale della globalizzazione, i popoli numericamente più piccoli, anche se ricchi di storia e di cultura, rischiano di scomparire per sempre.

La difesa della lingua nazionale, del suo utilizzo e quindi della creazione continua, è indispensabile affinché un popolo continui ad esistere. E porti il proprio contributo alla diversità, e dunque alla ricchezza, del mondo. Su questo abbiamo il dovere di riflettere.


Copertina: immagine da wikimedia

 


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Un pensiero su “Il Presidente emerito Napolitano e la lingua italiana fattore portante dell’identità nazionale

  1. Ho pensato al Politecnico di Milano vedendo “Oppenheimer”. Nel film di Nolan il fisico statunitense all’università di Leiden, quando tutti si aspettano che parli in inglese, tiene la sua lezione in olandese.

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