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Oggi in Italia si è celebrata la Festa della Repubblica, che ricorda la nascita nel 1946 della repubblica italiana, che sostituiva il Regno d’Italia. Nella costituzione repubblicana, tra i simboli, troviamo all’articolo 12 la bandiera tricolore. Ma nessun articolo fa riferimento alla lingua nazionale, l’italiano.
Era la lingua di Dante, e lo stesso Dante, celebrato quest’anno nei 700 anni dalla sua morte, sarebbe diventato di lì a poco uno dei grandi padri della Patria.
Come ricordava il presidente dell’Accademia della Crusca Claudio Marazzini qualche tempo fa, Dante era stato davvero nel cuore e nello zaino di coloro che si erano battuti per l’Italia, leggendo i versi della commedia e la biografia del poeta in esilio con gli occhi di Mazzini. E se Mazzini si era impadronito di Dante, poteva farne a meno Vittorio Emanuele, primo re d’Italia?
Eppure la lingua unitaria ha preceduto di molto in Italia il costituirsi di una nazione politica. A Dante si doveva la lingua d’Italia, perché, secondo la celebre formula resa popolare da Bruno Migliorini, Dante è appunto il “padre della lingua italiana”. La lingua si è dunque diffusa non con le conquiste territoriali, com’è stato nel Regno Unito, in Francia o in Spagna, ma grazie alla letteratura prima e alla Chiesa poi, che usava il toscano per i canti e il catechismo. Certo, nel 1861, come ci ha ben insegnato Tullio De Mauro, quella lingua italiana, che pure esisteva ed era servita per produrre capolavori letterari, difettava di popolarità, e quel difetto era segno di un problema politico-sociale enorme, che a stento è stato superato in 160 anni. La lingua italiana è quella che ci fa popolo italiano, e che fa italiani anche i nuovi italiani che arrivano da altre nazioni e continenti.
La lingua italiana di fatto è stata riconosciuta come lingua ufficiale da altre leggi, come lo statuto della provincia autonoma di Bolzano e la legge sulle minoranze linguistiche, ma la mancanza di un articolo specifico nella massima Carta la dice lunga sulla considerazione che gli Italiani mediamente hanno del proprio idioma. Non stupisce dunque che la classe politica del Bel Paese continui sostanzialmente a ignorare la lingua italiana e tutto ciò che la riguarda. La Repubblica italiana ha leggi specifiche per tutelare il proprio patrimonio artistico, paesaggistico, gastronomico, ma non ha una vera politica linguistica che tuteli e promuova la sua lingua nazionale.
Questo ha portato al fatto che, negli ultimi dieci anni, lo Stato e alcune delle più importanti istituzioni del Paese in campi strategici quali l’alta formazione, la scienza e lo sport, non solo non abbiano fatto nulla a favore della nostra lingua, ma abbiano addirittura intrapreso ciò che sembra a tutti gli effetti una politica attiva contro l’italiano. Abbiamo cercato di riassumerne qui le tappe salienti.
Inoltre i politici italaini usano abitualmente anglicismi crudi, ossia non adattati, anche nel rivolgersi ai cittadini, e allo stesso modo fanno i giornali e le TV, senza preoccuparsi di essere compresi o meno da chi legge o ascolta. Ed ecco allora che in Italia non esistono più tasse ma solo tax (Sugar Tax, Plastic Tax, Local Tax…), le leggi diventano Act (Jobs Act, Family Act…), nasce il ministero del Welfare, chi si prende cura di un anziano è un caregiver (spesso pronunciato cargiver) e durante la pandemia gli italiani non subiscono un confinamento come i cittadini francesi o spagnoli, ma un lockdown, durante il quale possono lavorare non da casa o da remoto ma bensì in smartworking.
Tutto questo si innesta su una situazione linguistica già poco in salute. Fin dagli anni ‘90 del secolo scorso l’italiano ha iniziato a perdere il filo del mondo che mutava, che si globalizzava, divenendo via via sempre meno capace di restare al passo formando neologismi attraverso il proprio materiale linguistico. Importare termini crudi da una sola lingua, l’inglese, è diventato in breve tempo l’unica strategia. E così se francofoni e ispanofoni hanno ordinateur e mot de passe, computadora e contraseña, gli italofoni hanno solo computer e password. Invece di résaux sociaux e redes sociales, usano i social network. E i tablet, i power bank, le gift card, le carte contactless, l’home banking, e l’elenco potrebbe proseguire a lungo.
Le accademie di lingua spagnola aggiornano rapidamente elenchi di alternative agli anglicismi, che circolano e vengono usate in tutto il mondo ispanofono. Lo stesso avviene in Francia, dove qualche giorno fa è uscito un nuovo elenco relativo al mondo dell’audiovisivo e dei videogiochi. Lì i cittadini hanno “diritto al francese”, grazie alla legge Toubon del 1994.
Crediamo sia giunto il momento che anche l’Italia si doti di una politica linguistica per l’italiano, seria ma equilibrata.
Nel 2020 una petizione al Presidente della repubblica Mattarella, che ha raccolto in due mesi oltre 4000 firme, nonostante non le sia stato dedicato spazio sui media nazionali italiani. La petizione chiedeva alla massima carica dello stato di sensibilizzare il mondo politico-istituzionale sulla necessità di limitare i termini inglesi in nome della trasparenza verso i cittadini. Nonostante la petizione sia stata ricevuta e protocollata dal Quirinale, non ci è mai pervenuta risposta nel merito della questione.
Nel 2021 è stato il nuovo Presidente del consiglio Mario Draghi a riportare l’attenzione sugli anglicismi, con la frase a sorpresa: “Chissà poi perché dobbiamo sempre usare tutte queste parole inglesi?”. Al che abbiamo deciso di lanciare una seconda iniziativa: la richiesta di discutere una proposta di legge “dal basso” così come previsto dall’articolo 50 della Costituzione italiana.
Oggi, Festa della Repubblica, può essere l’occasione per rilanciare la nostra proposta di legge e invitare i parlamentari di ogni partito a discuterla, o a prenderne spunto per elaborare una nuova proposta, quanto più possibile condivisa ed equilibrata.
Leggi e firma anche tu per far sì che questo avvenga.
Viva la Repubblica, viva l’Italia, viva l’italiano… e che l’italiano viva!
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