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In un sistema universitario e dell’alta formazione che vede l’inglese conquistare spazi sempre maggiori in buona parte del mondo, alcuni Paesi scelgono di incentivare il passaggio a questa lingua nei propri sistemi nazionali, anche per gli studenti locali, riducendo i corsi che uno studente può seguire nella propria lingua madre. È il caso dell’Olanda, dove attualmente il 50% circa dei corsi universitari è solo in lingua inglese, e dell’Italia, dove questa percentuale è in media poco sopra il 10% ma raggiunge la metà in alcuni atenei. Al Politecnico di Milano nell’anno accademico 2020/21 i corsi di laurea specialistica erano 40, di cui 27 esclusivamente in inglese. Questo ateneo nel 2012 aveva tentato di eliminare tutti i corsi avanzati in italiano e di proclamare l’inglese “lingua ufficiale dell’ateneo”, battendosi per 5 anni in sede legale contro un gruppo di propri docenti, sostenuto in questa battaglia giuridica addirittura dal Ministero dell’Istruzione italiano (MIUR). Altri Paesi europei, come Francia, Germania, Spagna, pur aumentando progressivamente i corsi in inglese, mostrano più prudenza nel togliere spazi alle proprie lingua nazionali in ambito universitario.
Se l’italiano arretra in patria, non stupisce che rinunci a mantenere i propri spazi fuori dai confini d’Italia. La più grande scuola statale italiana nel mondo, quella di Asmara in Eritrea, è chiusa dallo scorso giugno e rischia di non riaprire più. Sarebbe la fine di 103 anni di storia. In Somalia, l’Università Nazionale Somala – fondata negli anni ’50 dall’italiani e che mantenne sempre l’italiano tra le lingue d’insegnamento – ha riaperto i battenti nel 2014 dopo oltre vent’anni di chiusura, insegnando però solo in lingua inglese. Molti docenti italiani tengono lezioni per questo ateneo, ma solo in inglese. L’università stessa, attraverso il portavoce della missione internazionale AMISOM, aveva da subito affermato di voler tornare a insegnare anche in italiano:
Ma l’Italia in tutto questo non ha offerto pubblicamente alcun sostegno né manifestato interesse alcuno a insegnare nell’ateneo somalo né l’italiano né in italiano. Disinteresse totale.
Eppure ricreare un legame culturale, educativo ed economico con questi Paesi su cui l’Italia ha un ingombrante e pesante passato coloniale, sarebbe un modo di risarcire questi popoli degli errori del passato. La classe dirigente somala, per esempio, manifesta interesse nel ravvivare il legame linguistico con l’Italia, come affermava in questa intervista di due anni fa il direttore della scuola di giornalismo della UNS Khalid Maou Abdulkadir all’agenzia di stampa DIRE:
Purtroppo la lingua non viene considerato dalla maggior parte dei politici italiani come parte del patrimonio culturale del Paese, neppure quando c’è da scegliere il nome di progetti che vogliono portare questa cultura nel mondo. L’italiano inoltre vede i suoi spazi ridotti anche nel mondo della scienza, proprio mentre prestigiose riviste scientifiche lo scelgono per la prima edizione europea in una lingua diversa dall’inglese.
Altrove, un Paese molto più grande dell’Italia e con molti più mezzi economici, anche se con un’influenza culturale fino a pochi anni fa decisamente inferiore, investe ingenti risorse nella promozione della propria lingua nel mondo e nell’attrazione di studenti internazionali che studino nella sua lingua invece che esclusivamente in inglese. Stiamo parlando della Cina.
È notizia di poche settimane fa, rilasciata dal ministero dell’Istruzione cinese, che nel 2020 oltre 70 Paesi nel mondo avevano ufficialmente inserito la lingua mandarina nella propria offerta formativa, dalle scuole medie all’università. Questo dato si aggiunge all’incremento esponenziale degli Istituti Confucio per l’insegnamento del cinese, arrivati negli ultimi anni al numero di 540 nel mondo.
Tian Xyejun, viceministro dell’istruzione cinese, afferma che nel globo oltre 4000 atenei propongono il cinese nella propria offerta formativa e che circa 25 milioni di persone oggi stanno studiando il cinese come seconda lingua. Certo, numeri lontanissimi da quelli dell’inglese, studiato come L2 da un miliardo di persone, e anche da lingua come spagnolo e francese. Ma numeri importanti e in costante crescita. Soprattutto in determinate aree del mondo.
La Corea del Sud e il Giappone sono tra le nazioni ad aver visto gli studenti di cinese raddoppiare negli ultimi dieci anni. La maggior parte degli studenti di mandarino proviene dal sudest asiatico, secondo Wu Yinghui, professore all’Università di Lingua e Cultura di Pechino, che spiega come in quell’area vivano 30 milioni di persone di origine cinese, il 6% della popolazione totale, un bacino importante per lo studio del cinese come lingua seconda. Del resto quella cinese è la prima diaspora al mondo, seguita da quella italiana. Le competenze in lingua cinese sono in forte aumento in molti Paesi aderenti alla Belt and Road Initiative, la Nuova Via della Seta, soprattutto in Africa, dove lo studio della lingua è stato unito a quello delle tecnologie agricole o informatiche, aprendo prospettive di lavoro legate alla lingua. Dal 2020 il Kenya ha inserito il cinese tra le materie di studio opzionali delle scuole pubbliche, a partire dai nove anni di età in su. Altri paesi hanno dichiarato di volerne seguire l’esempio. Certo, l’idioma mandarino pare ben lontano dall’insidiare il ruolo di lingue come l’inglese o il francese in Africa, ma pare già farsi strada nell’Africa lusofona e nel Corno d’Africa, dove – come dicevamo – l’Italia continua a rinunciare al ruolo di riferimento che per decenni ha ricoperto.
Questa lezione ci insegna che la lingua resta un potente strumento di influenza, di “potere morbido”, ma anche di aiuto e sostegno che, se proposta e non imposta, può creare legami virtuosi a beneficio di entrambe le parti. L’Italia ancora una volta appare miope rispetto a queste dinamiche, ripiegata su se stessa ad inseguire un internazionalismo basato sull’adozione acritica dell’inglese in ogni ambito.
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Copertina: Pixabay
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