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Un tempo il concetto di “lingua franca” designava quelle lingue miste e semplificate che sorgevano nelle aree di contatti, soprattutto commerciali, tra culture diverse, e nel Mediterraneo esisteva una lingua franca basata fondamentalmente sul lessico italiano e spagnolo, mescolato a parole arabe o turche.
Oggi è invece l’inglese a essere presentato come la lingua franca del mondo intero, ma l’inglese è la lingua naturale dei popoli dominanti, e quando si dice che ha rimpiazzato il latino che nel Medioevo e in epoca moderna è stato la lingua internazionale della cultura si omette di precisare che quel latino era un idioma di intermediazione che non era la lingua madre di nessuno, dunque poneva tutti sullo stesso piano. Il paragone, perciò, dovrebbe essere fatto con il latino dell’epoca imperiale che veniva introdotto nei Paesi conquistati e sottomessi dall’espansione di Roma.
La ricostruzione della torre di Babele attraverso l’inglese è perciò una soluzione che non è affatto neutrale. E passando dalla prassi alle soluzioni etiche, il progetto dell’esperanto sarebbe decisamente più equo e conveniente, per chi non è anglofono. L’esperanto non è una lingua “etnica”, per dirla con Luigi Fraccaroli, presidente della FEI (Federazione Esperantista Italiana). Dunque che cos’è?
Fraccaroli: L’esperanto è l’unica lingua internazionale non coloniale. È nato dall’intuizione di un solo uomo, un po’ visionario e molto determinato, e oggi è parlato da almeno due milioni di persone in tutto il mondo. Chi impara l’esperanto abbatte le barriere linguistiche tra i popoli, e si rende conto ben presto che, tolta la diversità di lingua, nessuno è “straniero”. Questa forte impronta “etica” dà all’esperanto un valore aggiunto molto superiore al valore pratico che si ha imparando, poniamo, l’inglese. La neutralità intrinseca nella lingua, che per tutti i parlanti è appresa (nessuna rendita di posizione per nascita, ad esempio), le consente di proporsi quale strumento imprescindibile per la protezione e difesa delle lingue “minori”, che non sono solo –purtroppo – quelle di piccole comunità in estinzione, ma anche lingue dalla grande storia e grande letteratura (come l’italiano) che però non hanno la struttura per resistere alla massiccia aggressione anglofona. L’utilizzo di una lingua leggera, democratica e rispettosa delle minoranze in Europa è davvero l’unico modo per preservare la diversità (il valore che le istituzioni europee promuovono palesemente, salvo poi piegarsi alle conventicole dei pigri funzionari anglofili) e proporsi al mondo esterno come diversi dagli Stati Uniti e non proni alla loro superpotenza.
Il progetto di fare dell’inglese la lingua internazionale pone i Paesi anglofoni in una condizione privilegiata da innumerevoli punti di vista. Mentre in quasi tutto il mondo si devono mettere in campo enormi investimenti per fare apprendere l’inglese sin dalle elementari, nel Regno Unito e negli Stati Uniti lo studio di una seconda lingua è qualcosa di superfluo; i madrelingua inglesi non hanno l’onere di sobbarcarsi questi costi che possono destinare ad altro, e soprattutto godono dei vantaggi di utilizzare la propria lingua non solo nella comunicazione internazionale, ma più in generale anche nei settori che riguardano la scienza, il lavoro, l’editoria, la cultura e il flusso delle informazioni. Tutto ciò travalica la sfera del semplice beneficio legato al “prestigio” linguistico, e costituisce un enorme vantaggio dagli ingenti risvolti economici che, per citare il professor Michele Gazzola, viene definito dagli economisti “come ‘comportamento opportunistico’ nella produzione di beni collettivi.”1
Paradossalmente, l’Ue sta appoggiandosi sempre più sull’inglese che è di fatto una lingua extracomunitaria, dopo l’uscita del Regno Unito, e questo non ci conviene affatto. Uno studio dell’economista François Grin, nel 2009, ha calcolato che l’adozione dell’esperanto porterebbe a un risparmio di circa 25 miliardi netti all’anno per l’Europa, includendo nell’Europa anche i Paesi anglofoni come il Regno Unito. Dunque, un ricalcolo che tenesse conto della sua uscita porterebbe a delle cifre ancora più consistenti. Eppure a Grin non restava che prendere atto dell’esistenza di fortissimi pregiudizi su questa soluzione, tutti negativi e di rigetto, che allo stesso tempo corrispondevano ai pregiudizi positivi e di esaltazione nei confronti dell’inglese. C’è anche un altro fattore da tenere in considerazione: l’apprendimento dell’esperanto è ben più semplice, si può fare anche da autodidatti e richiede uno sforzo e un numero di ore di studio decisamente inferiore rispetto a quanto serve per l’acquisizione di una lingua naturale. Se fosse introdotto nelle scuole europee, nel giro di un paio di generazioni potrebbe diventare una realtà per noi ben più vantaggiosa. È così? E sarebbe un progetto fattibile? Penso all’eventuale reclutamento degli insegnanti e a tutto ciò che sarebbe necessario attuare per passare dall’utopia alla realtà.
Fraccaroli: L’introduzione del Sistema Metrico Decimale non è stata una passeggiata. Ha comportato lo scardinamento di consuetudini che persistevano da secoli, infatti tuttora nel mondo Paesi anche tecnologicamente avanzati continuano a usare unità di misura medioevali. C’è stato bisogno di rivedere tutte le misure, anche pratiche, in tutti i territori interessati, processo che non si è svolto in poco tempo. Però, dove ha attecchito, nessuno si sognerebbe di tornare indietro. Così vale per l’esperanto. L’esperanto è il sistema metrico delle lingue: logico, rigoroso, semplice da usare, con la traducibilità migliore da una lingua all’altra (dimostrato). Certo, occorrerà formare una platea di insegnanti prima di poter soddisfare la domanda del pubblico generale. Non si deve sottovalutare l’intrinseca maggiore facilità di apprendimento, che ne fa il candidato ideale per chi vuole studiarlo da autodidatta. A questo proposito, non posso sorvolare sul fatto che i nostri ragazzi (figli/e, nipoti), cioè i cervelli più duttili della Repubblica, impiegano tredici anni della loro vita per studiare inglese, e se vogliono perfezionarsi devono passare un periodo in un Paese anglofono; mentre lo studio dell’esperanto necessita di pochi mesi, durante i quali si raggiunge il livello corrispondente al B1 che mette in condizione di chiacchierare amabilmente di qualsiasi argomento. Il risparmio in termini di risorse economiche, sociali e personali è enorme, e il fatto che le istituzioni europee lo ignorino è senz’altro un grave vulnus all’idea di “comunità di uguali” che i Padri fondatori avevano in mente. Lo studio della lingua comune dovrebbe essere alla portata di tutti e comportare il minimo dispendio di energie; con la soluzione attuale, basata sull’inglese, invece, si privilegiano le élite sociali ed economiche a discapito della grande massa popolare.
L’esperanto è stato osteggiato sin dal suo apparire, e sul suo conto circolano infinite bufale e pregiudizi. Hitler lo definì la “lingua delle spie”, creata da un ebreo, e perseguitò gli esperantisti, come fece anche Stalin e come è avvenuto poi in altri Paesi. Anche l’Europa ha sempre ostacolato il suo riconoscimento e, benché nel 1954 l’Unesco ne abbia proclamato il valore e in seguito Paesi come la Polonia o la Croazia lo abbiano riconosciuto come un bene culturale, molti esponenti dell’Ue ne hanno spesso propagandato un’immagine mistificata basata sulla disinformazione, per esempio ritenendolo inammissibile tra le lingue europee perché sarebbe una lingua artificiale priva di una sua cultura. Eppure sono stati pubblicati almeno 10.000 libri in esperanto (persino alcune traduzioni di fumetti come Asterix) e la Biblioteca Nazionale Austriaca li ha raccolti in un museo. Qualche scrittore l’ha impiegato come lingua letteraria, esistono anche alcuni film e qualche opera teatrale, Radio Muzaiko trasmette in questa lingua dal 2011, ci sono alcuni gruppi musicali che la utilizzano e hanno dato vita a qualche migliaio di canzoni esperantiste, e la versione in esperanto della Wikipedia vanta un numero di voci superiore a quello di altre lingue naturali. Nel 2012 è stata inserita persino tra le lingue a disposizione sul traduttore automatico di Google, e Umberto Eco, che ne ha elogiato la bellezza,2 ha osservato che benché sia una soluzione razionale e funzionale, è stata sempre osteggiata per motivi extralinguistici.
Che cosa si può replicare di fronte a tutte queste resistenze?
Fraccaroli: L’esperanto è nato come progetto visionario di una persona nel 1887 (anno di pubblicazione della prima grammatica) e oggi si possono contare oltre due milioni di persone che la parlano a livello di madrelingua (C2). In 135 anni di vita la progressione si può definire miracolosa! Anche perché, come ricordi, è stato osteggiato da tutti i regimi totalitari (che ne avevano capito benissimo il potere dirompente contro il controllo delle opinioni), ma deve soffrire l’ostracismo anche delle classi dirigenti nelle democrazie avanzate, soprattutto in Europa, che ne scorgono un pericolo per la rendita di posizione che dà loro conoscere “la lingua dell’Impero”. La proliferazione di false notizie sull’esperanto, sulla sua letteratura, sulla mancanza di cultura, è il sintomo evidente della difficoltà a contrastarlo che soffre chi non può ammettere che è una soluzione migliore di quella che ha adottato per la vita, e per la quale ha investito fior di capitali, economici e umani.
Tra le bufale che riguardano la possibile adozione dell’esperanto, una delle più infondate è quella per cui, anche se si adottasse, con il tempo si differenzierebbe localmente, una sciocchezza che confonde le lingue etniche con quelle artificiali o di mediazione che si preservano proprio perché non sono la lingua madre di alcun popolo (la rivitalizzazione del latino in ambiente ecclesiastico docet). L’esperanto, invece, non solo si evolve, ma lo fa senza snaturarsi, al contrario dell’italiano dove negli ultimi 30 anni il numero impazzito di anglicismi “crudi”, cioè importati senza adattamenti, in un dizionario come il Devoto Oli è lievitato dalle circa 1.600 voci del 1990 alle oltre 4.000 delle ultime edizioni. In un recente studio sull’anglicizzazione dell’esperanto3 la questione è molto diversa, perché l’interferenza dell’inglese è sempre mediata dall’adattamento, senza che l’identità linguistica ne sia intaccata. Come si evolve, dunque, l’esperanto per stare al passo con i tempi e i cambiamenti della società?
Fraccaroli: In esperanto non esiste l’uso di parole non adattate. Anzi, si preferisce tradurre o addirittura inventare ex novo. Qualche anno fa i giovani esperantisti, convinti che nel lessico mancasse l’equivalente dell’inglese cool – e non potendo semplicemente usare un *kulo, perché già esiste e vuol dire “zanzara” – si sono inventati una parola nuova. Hanno preso il significato di cool, ovvero “moderno, giovane, di moda” = “moderna, juna, stila”; hanno preso le iniziali M J S come si pronunciano in esperanto, cioè mo–jo–so e ne hanno fatto un aggettivo e un avverbio, mojosa e mojose, che ora sono di uso comune in esperanto (almeno tra i giovani: a me non viene di usarli, perché non ho frasi dove userei cool). D’altronde, tutte le parole esperanto vengono da altri lessici, e sono state adattate alle regole di pronuncia proprie della lingua: se guardi un vocabolario, riconoscerai senz’altro quasi il 100% delle parole e da dove vengono. Comunque tutte le parole “straniere” (tra virgolette, perché tutto è straniero in esperanto, ovvero nulla è straniero in esperanto) vengono esperantizzate quasi senza pensarci. A causa del controllo molto stretto che automaticamente i parlanti esperanto fanno sulla propria lingua, l’evoluzione dell’esperanto rispetta rigorosamente le strutture grammaticali e sintattiche esistenti, cioè nessuno si sognerebbe di creare degli ibridi impronunciabili come capita invece – purtroppo – in italiano. L’introduzione di parole nuove (per evoluzione tecnologica o creazione di nuovi campi del sapere) parte innanzitutto dalla verifica se si possa trovare un equivalente nel lessico esistente. Quindi possono coesistere per un certo tempo più varianti, e alla fine prevale quella preferita dai parlanti. L’esempio cui mi riferisco è l’introduzione del computer, che all’inizio venne tradotto con komputero, komputoro o komputilo: alla fine prevalse l’ultimo, che era sentito come il più aderente alle regole della lingua: ilo “strumento” per komputi “calcolare”.
Anche se oggi l’abbiamo abbandonata quasi del tutto, un tempo anche in italiano prevaleva la strategia dell’adattamento, la stessa per cui l’inglese importa da ogni lingua ma adattando e facendo di ciò che importa parole proprie, come accade nelle lingue “sane”. L’anglicizzazione selvaggia dell’italiano si può leggere al contrario come un “effetto collaterale” del globalese, la lingua della globalizzazione basata sull’angloamericano che entra in conflitto con le lingue locali. Il fenomeno, da una parte porta allo snaturarsi degli idiomi locali travolti da uno “tsunami anglicus” – come lo ha definito Tullio De Mauro – che in ogni Paese ha ormai il suo nome: itanglese, franglese, spanglish, Denglisch…, e dall’altra porta a una regressione delle lingue minori sul piano internazionale, perché se l’inglese diventa la lingua franca del mondo e dell’Europa, le lingue locali si ritirano e si riducono a “dialetti” di un mondo che parla inglese. Il linguista tedesco Jürgen Trabant ha osservato che il fenomeno sta portando a una moderna diglossia neomedievale, e cioè a una gerarchia linguistica in cui l’inglese diviene la sovralingua superiore della cultura e delle classi colte, a cui non tutti hanno accesso, mentre le lingue nazionali si trasformano in lingue popolari.
La diffusione e l’adozione dell’esperanto, perciò, sarebbe non solo nell’interesse degli italiani e degli europei, ma contribuirebbe enormemente anche alla tutela e alla promozione del nostro patrimonio linguistico minacciato da un inglese che si sta rivelando una lingua cannibale. Chi volesse conoscere l’esperanto e impararlo, cosa può fare?
Fraccaroli: E il paradosso sta nel fatto che ormai gli angloamericani non hanno più bisogno di promuovere l’uso pervasivo della loro lingua: sono gli stessi europei che degradano autonomamente le loro bellissime lingue storiche imputridendole con anglismi più o meno adattati. Ho sentito una dirigente esprimersi con parole come pushare per “spingere”, collettare per “raccogliere”, auditare per “fare un’ispezione”, applicare nel senso di “inoltrare una domanda”, backuppare per “archiviare” e altre, tradendo una pigrizia mentale insospettabile per chi vorrebbe definirsi “intellettuale”. Il primo cardiologo che si inventò bypassare non immaginava a quale valanga avrebbe dato inizio!
Il modo più comodo per imparare l’esperanto oggi sono i corsi in rete (per informazioni: [email protected]). La pandemia ha dato un grandissimo impulso a una attività che esisteva già prima, ma che veniva vista come un fratello minore un po’ scapestrato del consolidato corso in presenza. Invece, la possibilità di riunire attorno a uno schermo insegnanti e studenti da ogni parte d’Italia (e anche fuori Italia) ha permesso, tra l’altro, di rendere disponibili le migliori cattedre dell’Istituto Italiano di Esperanto anche a persone residenti in luoghi isolati o disagiati, costruendo di fatto una comunità dove prima non c’era. Il corso base in rete permette di acquisire, in 15/20 lezioni, una competenza sufficiente ad affrontare l’esame per il livello A2, mentre il livello avanzato abilita al livello B1 (il livello C1 abilita all’insegnamento; per informazione, l’esame di livello C2 è reso disponibile da organizzazioni con sede all’estero). La pratica si ottiene per mezzo di numerosi video e documentari disponibili in rete, e partecipando agli ancor più numerosi canali di discussione presenti sui vari social (Telegram, Instagram, Twitter, Jitsi, Zoom,…), dove si sperimenta tra l’altro l’”accoglienza” del mondo esperantista verso chi vi si avvicina per la prima volta: il motto “nessuno è straniero” si declina anche nel senso “ti voglio comprendere anche se ti esprimi ancora male”, cosa che può capire e apprezzare chi ha avuto le prime esperienze – ad esempio – con inglesi e francesi…
La sensazione di sentirsi in condizioni di parità in mezzo agli esperantisti è impagabile, soprattutto quando si è sperimentata l’arroganza degli angloamericani che trovano scontato parlare soltanto la loro lingua dovunque si trovino. Gli esperantisti inglesi e americani sono quindi da ammirare per questa loro capacità di andare contro il senso comune dei loro connazionali (soprattutto negli Stati Uniti, dove in gran parte del territorio gli stranieri non si incontrano mai). Io ricordo amabili conversazioni tra russi e americani durante la Guerra fredda, tra iracheni e iraniani, tra israeliani e palestinesi, tra serbi e croati… A volte le chiacchierate tra amici ricordano le barzellette: ci sono un italiano, un tedesco, un cinese e un neozelandese…
La facilità di apprendimento dell’esperanto si misura con il tempo che si impiega a capire chi lo parla benissimo: soprattutto chi ricorda la frustrazione del non capire nulla delle conversazioni tra inglesi o tra francesi all’inizio del corso, potrà apprezzare che l’esperanto è comprensibile quasi fin da subito (i dettati sono molto più facili, per dire), le singole parole si capiscono, e se anche non si conoscono almeno si può cercarle sul vocabolario, senza dover litigare con una pronuncia estranea alla scrittura come capita con le altre lingue.
La pratica di persona, oltre che partecipando alla vita dei gruppi esperantisti locali presenti in gran parte delle province italiane, si attua visitando i Congressi e le altre manifestazioni che ogni anno vengono organizzate dalla Federazione Esperantista Italiana e dalle altre organizzazioni affini. La mole di opere letterarie, tradotte e originali, consente di mantenere e accrescere il lessico e la fluidità linguistica, nonché di approcciarsi a mondi culturalmente anche molto distanti dal nostro. La creazione di legami, favoriti dalla comune ideologia refrattaria ai confini (geografici e culturali), rende la partecipazione alla comunità esperantista un valore aggiunto a cui difficilmente si potrà rinunciare.
Per informazioni è possibile consultare il sito www.esperanto.it o scrivere a [email protected].
Note
1) “Lingue, perché l’Ue privilegia l’inglese anche dopo la Brexit (e quanto ci costa)”, di Farian Sabahi, Corriere della Sera 7/4/2021.
2) La ricerca della lingua perfetta, Laterza, Roma–Bari 1993.
3) “[…] a slim core of Esperanto roots […] and a huge periphery of (English) borrowings?” – Ĉu Esperanto fariĝas pli kaj pli angleca?, di Sabine Fiedler, in Esperantologio / Esperanto Studies, Nova Serio 3 (11), pp. 8-21.
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2 pensieri su “Italiano, inglese, esperanto e bufale: intervista a Luigi Fraccaroli (FEI)”
Sono perfettamente d’accordo su tutto, tranne che sul giudizio negativo per “auditare”. Lo uso regolarmente nel mio lavoro, ovviamente pronunciato a-u-d-i-t-a-r-e. L’etimologia è latina (come ammesso da tutti i dizionari inglesi) e non si tratta di un anglicismo crudo, quindi perché non accettarlo come sano neologismo italiano?
Articolo-intervista molto interessante e che apprezzo molto.
Volevo solo aggiungere che tra i Paesi democratici che hanno boicottato apertamente l’Esperanto ha un posto di rilievo la Francia, che nel 1921 si è opposta all’innalzamento dell’Esperanto tra le lingue ufficiali della Società delle Nazioni, in aggiunta a francese, inglese e spagnolo.
Enrico Gaetano Borrello
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