Barni su Micromega: «L’inglesorum è una questione seria»

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C’è una nuova questione della lingua causata dall’onda montante dell’inglesorum. Ne è convito lo scrittore Daniele Barni, che in un recente articolo pubblicato sulla rivista Micromega considera il dilagare degli anglismi («non anglicismi», puntualizza) una cosa seria e, purtroppo, sottovalutata. Secondo lui pochi termini, che in passato arrivavano in Italia, com’è normale fra lingue vicine, si sono trasformati presto in ondate e, adesso, in uno “zunami” (scrive proprio così: «zunami») di parole inglesi. Esso sta travolgendo, e stravolgendo, la nostra cultura nel disinteresse sostanziale di accademici, scrittori, intellettuali e politici. Tranne pochi, fra i quali il compianto Luca Serianni, che ha tentato più volte di fare argine.

«L’italiano è una lingua bellissima, un’opera d’arte realizzata in secoli di scrittura, prima ancora che di parola, come le meraviglie della nostra pittura, scultura, architettura e, appunto, letteratura. Essa – riflette Barni – è armonica nella sua complessità semplice: il suo sistema verbale, e in genere grammaticale, è tanto grande da poter abbracciare tutti i modi e i tempi, fino ai più impalpabili, del pensiero e del sentimento; il suo vocabolario è così ricco da poter spendere espressioni per ogni emozione e concetto, anche i più intangibili; la sua fonologia, cioè i suoi suoni, è così melodiosa, con tutte quelle vocali, da far danzare ogni ragionamento e sensazione, fino a rendere raffinati ed eleganti anche quelli più grossolani».

Barni auspica che il problema sia affrontato come una nuova “questione della lingua” e quindi non con improvvisazione, ma con serietà e professionalità dalle istituzioni. «Perché – dice – se la dichiarazione di Meloni nasconde un nazionalismo vago e inutile, quelle di tanti intellettuali che le hanno risposto nascondono altrettanta vaghezza e inutilità: in molti, non a caso, dopo aver sottolineato, fra le parole della Presidente del Consiglio, quelle che richiamano i toni della Buonanima, la quale, ad esempio, pretendeva di chiamare il cocktail “bevanda arlecchina” o il pullman “torpedone”, hanno altresì dichiarato che sia insensato arginare o regolare i travasi di parole fra lingue e che la soluzione stia soltanto nel rendere più forte ed espansiva la cultura italiana. Entrambi sono modi sbagliati di affrontare un problema che pure esiste. Inoltre, mi pare che entrambi si rifacciano al concetto, per altro fascistissimo, di forza, fumoso e inefficace, senza frugare nella questione per cercare di tirarne fuori qualche idea. Le lingue, infatti, non sono entità separate governate dal fato o dagli dei, ma suoni che stanno nelle bocche degli esseri umani e che, come tali, possono essere scelti, modificati o sostituiti».

Nell’articolo di Micromega l’autore di numerosi e apprezzati saggi sottolinea che quando ci si mette in bocca parole straniere, ci si nutre anche di culture diverse dalla nostra, che possono contribuire o meno al nostro benessere. «Invece, ci troviamo nella situazione contraria: gli apporti giungono soprattutto dai paesi anglosassoni, e nella maggior parte dei casi sono inutili; portano con sé convinzioni e abitudini accettate acriticamente; non producono nuova cultura, ma semplice sostituzione di quella esistente. In più, si fa sfregio alla bellezza, deturpando una lingua melodiosa e armonica come l’italiano, a dominanza vocalica, con l’inglese, ritmica e spesso cacofonica, a dominanza consonantica. Interi settori del sapere, sia nel parlato comune sia fra i linguaggi tecnici, sono abbandonati all’inglese: penso alla fisica, all’informatica, alla biologia, ma anche all’economia, alla sociologia, alla pedagogia, ecc… Per non parlare dell’effetto comico che, in questi tempi di epidemia, fanno certe nonnine e certi nonnini che raccontano di essere rimasti in lockdown; quando potrebbero adoperare una normalissima parola italiana, cioè “confinamento”».

Allora, che fare? Per Barni le istituzioni dovrebbero agire in duplice modo. «Innanzitutto – spiega – incentivando chi lavori nelle comunicazioni a usare la lingua italiana, quando possibile: in televisione, in radio, nei giornali, nelle reti sociali, nel mondo della scienza e della cultura i giornalisti, gli ospiti, gli esperti devono reimparare ad adoperare la nostra bellissima lingua, fornendo così al pubblico un esempio virtuoso. In secondo luogo, finanziando e organizzando un gruppo apposito di linguisti, per altro già presente presso l’Accademia della Crusca, che, ogniqualvolta l’italiano manchi di parole per i nuovi oggetti o concetti importati, elabori e divulghi prontamente dei neologismi. Così, per chi lo desideri, e senza i divieti e le costrizioni del Ventennio o, come in Francia, le pressioni dell’Académie Française, ci sarebbero subito a disposizione nuove parole italiane da impiegare parlando o scrivendo».

Barni poi affronta anche la valanga di obiezioni sull’uso degli anglismi dovuta alla presunta efficacia dell’inglese. «L’inglese permette maggiore velocità di esecuzione orale o scritta; l’italiano offre spesso parole più brutte dell’inglese per indicare determinati oggetti o concetti; tante parole inglesi, ormai, rientrano in una sorta di esperanto tecnico, abbandonando il quale si rischierebbe di non essere compresi all’estero. (…) Si potrebbe rispondere che ci si accorgerebbe che essa non è vera, se solo si avesse la voglia di tendere le orecchie a lingue vicine alla nostra come lo spagnolo o il francese: in francese, ad esempio, per citare parole tratte dal linguaggio tecnico dell’informatica, fra i più colonizzati in Italia, il computer si dice ordinateur, l’home page accueil e l’hardware e il software matériel e logiciel; in spagnolo, poi, ci si ostina ancora, solo per fare un esempio tratto dal linguaggio comune, a chiamare i film películas. (…) Si potrebbe rispondere che parole brutte e belle, ovvero eufoniche e cacofoniche, esistono in tutte le lingue: certo, magari “strumentario” e “programmario” suonano meno bene di hardware e software, ma poi, a proposito di parole brutte, non credo che l’inglese handkerchief, ammesso che si riesca a pronunciarlo, sia da preferire all’italiano “fazzoletto da naso”. A parte gli scherzi e le battute, le lingue costituiscono, per chi crede, l’anima, per chi non crede, la psiche delle persone. Perderle significa perdere se stessi».

(Fonte: Daniele Barni su Micromega)

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