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Qualche giorno fa è stata approvata a larga maggioranza dal parlamento italiano la riforma degli Istituti Tecnici Superiori (ITS). L’obiettivo della legge è istituire un canale di formazione biennale post diploma, parallelo a quello universitario, che dovrebbe lavorare in sinergia con le imprese che diventano, di fatto, il punto di riferimento del sistema. Insomma, un nuovo tipo di diploma. E come le tutte le innovazioni, in Italia, non poteva avere un nome italiano. Ecco allora che nel sistema scolastico italiano arriva un anglicismo ufficiale, che definisce il nuovo istituto: si chiamerà “ITS Academy”.
Non è dato sapere il motivo della scelta dell’esponente di Italia Viva relatore della legge che li istituisce, ma il Corriere della Sera sostiene che il motivo è quello di distinguerli dai vecchi istituti tecnici, e aggiunge che “i puristi si sono dovuti arrendere all’anglicismo nel nome”.
Il punto non è il purismo, ma è chiedersi per un momento per quale motivo un nuovo percorso scolastico istituito in Italia debba avere un nome inglese. Perché? Se il tema è evitare ambiguità, certo si poteva trovare un nome italiano diverso, che chiarisse la novità del nuovo diploma rispetto agli altri percorsi formativi.
La verità è che ormai l’inglese (e gli anglicismi) sono un dogma, qualcosa che non può mai essere messo in discussione, neppure quando viola palesemente le più basilari regole del buon senso, come in questo caso. Viene però il sospetto che questo manto di novità e progresso che qualsiasi suono inglese suscita in molti italiani serva anche a mascherare un grosso cambiamento, quello di un sistema dell’istruzione che inizia ad essere governato dalle imprese private e dai suoi rappresentanti e non dal mondo istituzionale scolastico e universitario. Così come il Jobs Act che di fatto abolì in modo silente il famoso Articolo 18 contro i licenziamenti senza giusta causa, ora queste Academy inaugurano percorsi stabiliti dalle imprese.
Una “aziendalizzazione” dell’istruzione che è stata recentemente denunciata nel coraggioso discorso di tre studentesse della Scuola Superiore Normale di Pisa, in cui l’unico anglicismo è la mentalità del “publish or perish” che spinge la competitività all’interno dell’istituto:
Ma non sono solo i nomi dei corsi a mostrare la penetrazione dell’inglese nel mondo scolastico e universitario italiano. Il Politecnico di Milano è riuscito a rendere la stragrande maggioranza dei propri corsi avanzati esclusivamente accessibili in inglese. E non è il solo ateneo. Ecco la proclamazione di un nuovo dottore presso l’Università di Pavia:
Nella stessa università, presso la prestigiosa facoltà di Medicina e Chirurgia, si è tenuta anche la cerimonia di “White coats”, la consegna dei camici bianchi, scimmiottata dal mondo anglosassone. E immancabilmente in inglese:
Per il presidente della regione Emilia-Romagna, Bonaccini, la nuova laurea in medicina dell’Università di Piacenza “interamente in lingua inglese, dà il senso di come ci siamo posizionando” agli studenti stranieri, che si vuole attrarre. Sarebbe carino chiedersi cosa farne dopo che li si è “attratti” a studiare in Italia per tre o cinque anni. Se vogliono restare, forse parlare l’italiano non sarà superfluo per inserirsi nel tessuto sociale e produttivo italiano. Ma a nessuno interessa porsi domande serie, inglese è bello, inglese è meglio. Punto.
YouTube è pieno di video di studenti italiani che parlano dei loro corsi universitari in inglese, in Italia. In particolari studenti di medicina e di economia, ma non solo. Quasi nessuno si chiede quale senso abbia obbligare studenti italiani e professori italiani a parlarsi in inglese a lezione e durante gli esami. Uno dei pochi che abbiamo trovato che affronta in qualche modo il tema è il seguente, dal minuto 6:28:
La personale opinione di questo ragazzo è che la formula migliore sia una laurea triennale in italiano, perché la lingua madre consente un apprendimento più profondo delle nozioni, seguita a una specialistica in inglese, perché l’inglese è irrinunciabile per comunicare nel mondo. Opinione rispettabile e interessante, anche se forse per apprendere del lessico specialistico non è necessario che l’intero corso biennale di laurea magistrale sia tenuto integralmente in inglese. Ma anche questo argomento è tabù: per avere professionisti migliori non serve mettere in discussione la qualità della didattica, i percorsi di tirocinio e il contatto col mondo del lavoro, no, la soluzione è obbligarli a imparare in una lingua straniera. Semplice, no?
L’Italia sta rinunciando alla propria lingua, e lo sta facendo con precise scelte politiche, leggi dello stato, forzature palesi e attacchi al più comune buon senso, senza capirne bene i motivi e le conseguenze. Le professioni e le scienze sono sempre più incapaci di esprimersi nella nostra lingua, e c’è chi quasi se ne compiace, sostenendo con un sorrisetto ebete che “la scienza ha sempre parlato inglese”. Alla faccia di Galileo e in barba al fatto che nessun Paese (a parte Italia e Olanda) ha eliminato le pubblicazioni scientifiche nella propria lingua in queste proporzioni.
Il rapporto tra l’inglese globale e le altre lingue e l’uso di queste nel sapere scientifico e tecnologico è un argomento centrale, che andrebbe affrontato con razionalità perché pone temi e problemi complessi, che abbiamo cercato di affrontare anche in altri articoli. In Italia invece tutto è appiattito e ridotto al nuovo (l’inglese) contro al vecchio, al purismo, al conservatorismo (l’italiano).
Speriamo, con l’aiuto di quanti vorranno condividere le nostre posizioni e diffonderle, di suscitare un dibattito serio su questi argomenti, nella società e tra i politici. Abbiamo anche presentato una proposta di legge per una politica linguistica efficace ed equilibrata, che ancora non è stata discussa e che vi invitiamo a sottoscrivere e diffondere il più possibile. Perché le scelte di oggi avranno conseguenze che forse ci faranno pentire, ma a cui sarà ormai molto difficile rimediare.
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