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Sul quotidiano italiano “Il Foglio”, negli ultimi giorni si è sviluppato un dialogo su un tema a noi caro, quello della formazione universitaria, con espliciti riferimenti alla questione linguistica. Gli articoli apparsi sul giornale prendono le mosse da due iniziative recenti, una appena conclusasi (gli Stati generali dell’Università promossi dalla Conferenza dei rettori) e una in corso (la revisione della Legge 240, la “ Riforma Gelmini”, promossa dal ministro Bernini), che rappresentano un’occasione per fare il punto, individuando problemi e possibili soluzioni da tenere presente nel tracciare una nuova rotta per i prossimi anni.
In un articolo del 7 gennaio scorso a firma di Andrea Graziosi, intitolato “Perché investire nelle università è una questione nazionale“, l’autore traccia un quadro della situazione degli atenei del bel Paese, che vantano una storia antica (l’Università di Bologna è la più antica d’Europa e dunque, nel suo genere del mondo). L’assetto delle università italiane prende, alla fine del XIX secolo, una direzione derivata dall’impostazione degli atenei tedeschi, che ebbe successo in tutto il mondo occidentale, dall’Europa agli Stati Uniti. Grazie al quelle scelte, l’Italia vanta ancor oggi un sistema universitario di livello medio-alto, legato a una rete di enti e istituti di ricerca di qualità equivalente e raggruppato intorno a un nucleo di 10-15 grandi università e alcune Scuole speciali superiori. Come ha ricordato sulla Stampa Giorgio Parisi, questo sistema nutre non solo una ricerca di qualità, che in alcune discipline tocca punte di livello mondiale, ma anche una formazione di altrettanta qualità, confermata dalla facilità con cui i migliori laureati italiani sono accettati in tutti i maggiori atenei e i più importanti laboratori del mondo. Esso forma inoltre matematici, chimici, ingegneri, medici, economisti, archeologi, storici dell’arte ecc. al passo con la ricerca mondiale, di cui si nutre la vita del paese.
La situazione odierna, prosegue Graziosi, è tuttavia più complessa e pesante di quella, già difficile, in cui fu varata nel 2010 la legge Gelmini. “Ad essere afflitta da seri problemi era allora un’Università che quella legge, malgrado le difficilissime condizioni create dalla crisi del 2008, permise di riorientare verso qualità e apertura internazionale. Ciò fu possibile anche perché l’Italia, e l’Europa con essa, erano ancora abbastanza solide, benché fossero già operanti tutti i fattori della crisi in cui viviamo. Oggi, invece, a soffrire in modo manifesto è l’Unione europea nel suo complesso, e l’Italia con essa. L’Università ne risente e si possono affrontare in modo corretto i suoi problemi solo a partire dalla consapevolezza dell’entità della sfida che abbiamo di fronte e della posta in gioco, che è quella di un possibile nuovo, brusco declino dello status scientifico, industriale, politico e culturale del vecchio mondo, e in particolare dell’Italia, con quel che ciò vorrebbe dire in termini di sofferenze umane e sociali.”
In una “breve rassegna delle fragilità principali” l’autore include, accanto al “declino della posizione italiana nel mondo” e a “una crisi demografica più grave di quella degli altri grandi paesi europei, Spagna esclusa” anche quella di avere “un bacino linguistico limitato rispetto a quello di cui godono Spagna, Portogallo, Francia e ovviamente i paesi anglofoni“. Graziosi correla qui il tema della ristrettezza del bacino linguistico a quello della natalità. Le università francofone o ispanofone possono affrontare con meno difficoltà la caduta degli iscritti legata alla denatalità andando a pescare dalle ex-colonie africane o latino-americane. Nella successiva “fragilità” del sistema universitario italiano l’autore individua implicitamente la soluzione al problema precedente, sottolineando “la grande difficoltà di costruire un sistema universitario in inglese, come ha fatto l’Olanda, se non in certi settori e a un certo livello”.
Il problema dunque è il numero di studenti, oltre alla loro qualità, e si può naturalmente risolvere anche “aumentando la capacità attrattiva del nostro sistema universitario“. Contro questa soluzione giocano però, tra le altre, la già ricordata assenza di “un bacino linguistico italofono internazionale” e – a quanto pare – “le nostre tradizioni culturali e linguistiche“. Come fare? “Si potrebbe tuttavia sostenere un aumento sostanziale dell’offerta di corsi in inglese soprattutto a livello di lauree magistrali e dottorati di ricerca, garantendo percorsi di alto livello capaci di attirare dall’estero studenti di qualità elevata“.
La conclusione dell’autore è che in ogni caso la questione essenziale resta il “comprendere che c’è un interesse nazionale, vero e pressante, a sostenere l’avanzamento delle conoscenze e loro apprendimento e a perseguire questo obiettivo” per garantirci una vita migliore e preservare la nostra indipendenza.
Il giorno successivo gli risponde, con un altro articolo sullo stesso quotidiano, Pierluigi Pansa. Il titolo del suo pezzo chiarisce già la posizione dell’autore rispetto a quanto scritto da Graziosi: “L’equivoco di chi considera l’università solamente un luogo di ricerca“. E già nelle prime righe sintetizza così il pensiero espresso dal collega: “la storia non è qualcosa che l’umanità scrive come esito di una lotta per la cultura, bensì qualcosa di ineludibile: il pragmatismo, la ricerca scientifica sviluppata in un orizzonte globale e l’uso della “colonialista” lingua inglese sono un futuro ineludibile“.
Il pezzo di Pansa critica sostanzialmente tutte le posizioni di Graziosi, ma concentriamoci sui punti dove si cita l’uso dell’inglese. Le pubblicazioni scientifiche. già oggi, vengono fatte “in inglese (i contenuti contano meno)“. Gli atenei sono (e negli auspici di Graziosi diventerebbero ancora di più) il “riflesso di ricerche effettuate in laboratori hi-tech delle Stem, dove si insegna in inglese per sottrarre studenti da Stati Uniti e altri paesi“. Tutto questo in un Paese come l’Italia “con tremila miliardi di debito, in crisi demografica, che seleziona per cooptazione ottocentesca i docenti, che ha un enorme bisogno di divulgazione e formazione culturale“.
Del resto, ricorda Pansa, “non solo quei parrucconi dell’Accademia della Crusca (“Fuori l’italiano dall’università? Inglese, internazionalizzazione, politica linguistica”, a cura Nicoletta Maraschio e Domenico De Martino) ma studi internazionali (vedi Michele Gazzola lecturer in Public Policy and Administration alla Ulster University di Belfast) hanno mostrato un doppio problema: l’abbandono dell’insegnamento nella propria lingua porta alla costruzione di un mondo uniforme, che perde le differenze culturali, motore della crescita. Inoltre, pensare (e scrivere) non nella lingua madre svantaggia tutti i non nativi inglesi e sfavorisce la capacità analitica nell’approfondire i problemi: ci parliamo tutti, ma superficialmente. Ricerchiamo tutti, ma in maniera banale“.
Vorrei aggiungere qualcosa a questo botta e risposta, che mi fa piacere perché parla esplicitamente – a favore o contro che sia – della volontà di marginalizzare l’italiano, quando non di escluderlo completamente, dall’alta formazione in Italia. Su questa direzione non ci sono dubbi. Abbiamo scritto spesso sulle nostre pagine di questioni legate alla lingua nelle università, a partire dalle vicende del Politecnico di Milano, ateneo statale che nel 2012 tentò di eliminare tutti i corsi avanzati in italiano e di dichiarare l’inglese “lingua ufficiale dell’ateneo”, fino alla scelta della sede riminese dell’Università di Bologna di eliminare la versione in italiano del corso in Economia del Turismo per lasciare solo la già esistente versione in lingua inglese.
Qui stiamo parlando di università pubbliche, finanziate col denaro di tutti i cittadini italiani, e che adottano ormai la mentalità di aziende private, o degli atenei privati come la Bocconi di Milano, che si è data l’obiettivo di erogare il 70% dei suoi corsi solo in inglese entro il 2026. La logica è quello di uno studente-cliente e cui vendere formazione. Se i clienti italofoni sono pochi e in calo, per le questioni demografiche di cui sopra, che problema c’è? Si vanno a cercare clienti all’estero. E lo studente di madrelingua italiana è in trappola: fuori dall’Italia pochissime università insegnano in italiano. Quindi non ha scelta e a nessuno sembra importare.
Non solo la rinuncia ad insegnare nella propria lingua madre porta a lungo andare a una omologazione culturale (già evidente in molti ambiti culturali, economici e aziendali in Italia) ma comporta banalmente problemi pratici di qualità della didattica, e di conseguenza dell’apprendimento. Nella propria lingua madre si trasmette meglio il sapere, con più chiarezza, con più sfumature, con maggiore passione, e dall’altra parte si assimilano più facilmente i concetti, indipendentemente dalla capacità poi di saperle esprimere in un’altra lingua, apprendendone il vocabolario tecnico. Costringere studenti italiani e docenti italiani a comunicare solo in inglese rende la formazione più povera e superficiale. La qualità degli studenti in uscita sicuramente non migliora.
Passando dagli studenti italiani a quelli stranieri, nessuno nega che sia positivo che un ateneo accolga studenti e insegnanti da altri Paesi. Ma davvero l’unico modo (e quello più intelligente di farlo) è imporre il solo inglese? Statistiche raccolte negli ultimi 10 anni nei Paesi che per primi avevano scelto l’anglificazione massiccia delle proprie università, come Olanda e Germania, hanno svelato come la maggioranza degli studenti al termine del percorso di studi in inglese lasciassero il Paese. E tra le principali motivazioni c’era proprio la mancanza di conoscenza della lingua del paese stesso, che impediva un reale inserimento sociale e lavorativo. Con qualche anno di ritardo, se ne sono accorti anche al Politecnico di Milano, che nel 2021 ha introdotto un esame di lingua italiana obbligatorio per tutti gli studenti stranieri di corsi in inglese.
In Italia, mentre il numero dei laureati langue e l’analfabestismo funzionale cresce insieme al decrescere delle competenze degli italiani nella propria lingua, la soluzione qual è? Porre un ostacolo linguistico (perlopiù inutile) a tutti gli studenti italiani, obbligando per esempio chi vuole fare l’albergatore sulla Riviera romagnola non a conoscere l’inglese per parlare con i clienti, ma a studiare matematica, economia e diritto del lavoro (italiano) in inglese. E si punta tutto sugli studenti stranieri, aumentando i finanziamenti alle università che ne attirano (coi corsi in inglese) di più. Studenti stranieri che poi per la gran maggioranza al termine degli studi non restano in Italia. Il tutto pagato da montagne di denaro pubblico. Puntando tutto sul solo inglese, tra l’altro, si toglie una delle motivazioni principali che gli studenti stranieri avrebbero nello studiare la nostra lingua: proseguire gli studi in Italia. Interi bacini di utenza, per esempio l’Africa francofona, che non conosce l’inglese ma invece (come rivela lo studio del professor Siebetcheu dell’UNISTRASI) ha interesse per l’Italia e trova l’italiano una lingua facile perché simile al francese. Insomma, strategia suicida. Pura follia.
Ma davvero questa è la strada migliore da seguire? Beh, chi l’ha seguita, come appunto la Germania, l’Olanda o i Paesi scandinavi, sta rimettendo seriamente in discussione queste scelte. Francia e Spagna non la seguono affatto, sancendo anzi un diritto allo studio nella propria lingua (nel caso spagnolo anche lingua regionale riconosciuta) e incentivando gli studenti stranieri a imparare lo spagnolo o il francese. Ma Graziosi obietterebbe che queste lingue sono diffuse fuori dall’Europa e dunque il sacro criterio del numero degli studenti sarebbe salvo, al contrario del povero italiano così poco parlato altrove. A parte il fatto che, come già detto, impedire l’uso universitario dell’italiano significa inibire chi in Europa (pensiamo ai Balcani), in Africa o in Sudamerica invece lo studierebbe per poi completare gli studi nel Bel Paese, bisogna considerare che un altro fatto. Esistono Paesi sviluppati con lingue parlate solo nei propri confini. Pensiamo al Giappone o alla Corea del Sud, nazioni economicamente e tecnologicamente avanzate, con popolazioni alfabetizzate e alto numero di laureati. Il giapponese e il coreano si parlano sostanzialmente solo lì, eppure né Seul né Tokyo si sognano di abolire i corsi universitari nelle proprie lingue per i propri studenti. Anzi, i corsi in inglese sono pochi anche per gli stranieri. Se vuoi studiare in Corea verrai aiutato a imparare il coreano, e così con giapponese nel vicino arcipelago.
Noi di Italofonia abbiamo scritto alla ministra Bernini per ricordare tutto ciò nell’ambito dei lavori per la revisione della legge Gelmini. Se, come dice Graziosi trovandoci d’accordo, bisogna comprendere che c’è un interesse nazionale pressante a sostenere l’avanzamento delle conoscenze e il loro apprendimento, bisogna seriamente chiedersi se il metodo più efficace per raggiungere questo obiettivo sia quello di obbligare tutti gli studenti italiani a usare solo l’inglese e disincentivare quelli stranieri a imparare l’italiano. Di sicuro l’università italiana deve cambiare, ma di tutto ha bisogno tranne che di più inglese al posto dell’italiano.
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Foto di Nikolay Georgiev da Pixabay
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