Sanità, troppi anglicismi alzano barriere linguistiche tra professionisti e pazienti

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Sulle nostre pagine parliamo spesso del tema dell’abuso di anglicismi, un fenomeno globale che in italiano ha dimensioni enormi, tali da presentare il serio rischio di una progressiva ibridazione della nostra lingua in un miscuglio che qualcuno definisce itanglese. Non si tratta di un vezzo, di allarmismo, né di velleità puristiche, ma di una preoccupazione basata su dati circostanziati, per l’impatto che questo fenomeno sta avendo sulla nostra lingua ma anche sui singoli parlanti, i cittadini che utilizzano l’italiano nella vita di tutti i giorni.

A questo proposito vogliamo presentarvi oggi una riflessione che sta progressivamente facendosi spazio nel mondo scientifico-sanitario italiano: quello delle barriere linguistiche tra paziente e professionista e di come l’invasione di termini inglesi innalzi ulteriormente queste barriere. Abbiamo cercato di riassumere alcune riflessioni di questo dibattito partendo da tre articoli, scritti su riviste di settore tra il 2016 e il dicembre 2022 da altrettanti professionisti in campi diversi dell’ambito sanitario.

La domanda di partenza è semplice: siamo sicuri che il nostro linguaggio scientifico sanitario funzioni e sia comprensibile a tutti?

«Scusi cerco l’infermiere o il medico, dove li posso trovare?»
«Guardi, li trova alla week surgery, stanno facendo il briefing dopo il round medico.»

Il verosimile dialogo raccontato dall’infermiere Marco Alaimo mostra un esempio, familiare a molti, di ciò che molto cittadini si trovano ad affrontare nella giungla dei non facili linguaggi sanitari. Già risulta alle volte difficile riuscire a capire nel dettaglio alcuni termini sanitari in Italiano, figuriamoci in inglese.

Handover, briefing, setting, round medico, bedmanager, visual hospital, day hospital, day/week surgery, discharge room, check list, audit, chronic care model, fast track, breast unit, check up, follow-up, output, screening, device, risk manager, hospice, trauma center, sono solo alcuni tra i termini più frequenti. Spesso riportati non solo sui referti e nelle comunicazioni scritte e orali con i medici, ma anche sulla segnaletica all’interno degli ospedali italiani.

Ovviamente il professionista della sanità è abituato all’uso di determinati anglicismi nella comunicazione interprofessionale, ma il loro uso può non essere per niente efficace nella relazione con il cittadino. C’è infatti il rischio di un sovradosaggio di termini anglofoni al quale il medico dà troppo valore, scordando di assicurarsi se il proprio interlocutore abbia effettivamente recepito il messaggio. Sono poi di moda anche termini per chiamare con nomi nuovi modalità già presenti e funzionanti da tempo, come il ben radicato “passaggio di consegne” sostituito con “handover”.

La confusione e la distanza generate dall’uso di questo tipo di linguaggio è una sfida da cogliere, tanto più “in un momento storico in cui si parla tanto di centralità del paziente nei processi decisionali in sanità”, scrive Pier Raffaele Spena, presidente dell’associazione stomatizzati Fais Odv. Studi di settore – sostiene Spena – hanno dimostrato che soprattutto nel primo livello di interazione professionista-paziente dove si avvia la relazione di cura, sono numerosi gli inglesismi utilizzati, soprattutto da parte del medico; questo linguaggio, secondo gli stessi studi, risulta opaco per molti pazienti, che di conseguenza, capendo di meno, conoscono meno le loro malattie croniche, gestiscono peggio le loro cure, e sono meno propensi a adottare misure preventive per la loro salute. E questo riguarda anche pazienti molto alfabetizzati, preparati nel proprio ambito professionale, e perfino chi conosce bene l’inglese ma fatica a riconoscere termini inglesi o pseudo-inglesi inframmezzati nel linguaggio tecnico sanitario di un medico italiano.

In conclusione, una limitata alfabetizzazione sanitaria può rappresentare un rischio per la sicurezza dei pazienti. La consapevolezza del problema, l’impegno ad affrontarlo e l’implementazione di cambiamenti comunicativi nell’ambiente sanitario possono contribuire a garantire che i pazienti comprendano i loro problemi di salute e siano competenti nella gestione delle loro cure. L’approccio più prudente è quello di dare sempre per scontato che il paziente non abbia una competenza specifica e che esprimersi con termini comprensibili a tutti può aiutare l’intero sistema e renderlo più “umano”.

La dottoressa Paola Chesi, laureata in Scienze Naturali presso l’Università degli Studi di Torino, esperta in medicina narrativa e docente nell’area medica della Fondazione ISTUD, si spinge oltre. Dalle quasi 6000 narrazioni di pazienti sulla propria malattia, raccolte in questi anni dalla fondazione, emerge che gli inglesismi utilizzati si riferiscono agli aspetti più clinici, tecnici o organizzativi delle cure, mentre per esprimere le emozioni, i vissuti quotidiani e relazionali, si utilizza la propria lingua di appartenenza. L’uso dell’inglese, che i pazienti cercano di imitare e riproducono, crea dunque un ulteriore divario e una percezione del proprio percorso di cura come più centrato sulla malattia e i sintomi che non sulla propria persona, che li vive.

Chesi porta alla luce anche le dinamiche di diffusione degli anglicismi in altre due dimensioni del settore sanitario: la comunicazione tra professionisti e quella tra strutture sanitarie. La prima è fortemente influenzata dai termini provenienti dalla ricerca scientifica, obbligatoriamente in inglese: paper, abstract, submission, impact factor, survival, biomarkers, range, survey, clinical trial, case study, proceeding, sono tutte espressioni “imposte” dalla comunità scientifica internazionale. Le fonti di aggiornamento e approfondimento più verificate e legittimate sono in Inglese, così come per diffondere e valorizzare una ricerca clinica italiana è necessario saperla tradurre in inglese scientifico. Non a caso, gli articoli di ricerca scientifica sottomessi alle riviste internazionali dai professionisti italiani registrano un alto tasso di rifiuto, non certo per mancanza di qualità di contenuti, ma semplicemente per la barriera linguistica, per le difficoltà ad uniformarsi all’inglese scientifico. Ma anche nella pratica clinica si utilizzano comunemente espressioni come burn out, border line, compliance, target therapy, aging, burden of disease e tante altre, utilizzate all’interno dei “team”, per l’appunto chiamati ricorrendo all’inglese. Dei vantaggi e dei limiti dell’inglese come lingua di riferimento della scienza, tema caro alla scienziata e linguista Maria Luisa Villa, abbiamo parlato in questo articolo. L’inglese è oggi la lingua fondamentale per scambiarsi informazioni scientifiche, ma la scienza non vive solo di questo, e dovrebbero tenerne conto tanto gli scienziati quanto gli stati, che organizzano e finanziano larga parte della ricerca e dell’alta formazione.

Ma è nell’ambito dell’organizzazione e gestione delle strutture sanitarie che si riscontra il maggior utilizzo di inglesismi, quando il contesto sanitario incontra quello organizzativo manageriale, importando il linguaggio proveniente dal mondo aziendale: data managerrisk managermanagementdecision makerturnoverbriefingbudgetfeebusiness planperformancespending reviewvisionmissiontimelineclinical governancestandard, FAQ (Frequently Asked Questions), stakeholdercall centerfeedbackcustomer satisfactionprivacyticketpatient journeycheck listflow chartempowerment, e-health… e si potrebbe andare avanti ancora. Per fare degli esempi, il 22 settembre 2016 il Ministero della Salute ha promosso un’iniziativa nazionale di sensibilizzazione sul tema della preservazione della fertilità, letteralmente la “giornata della fertilità”, ma chiamata in Inglese “Fertility day”. O ancora, spesso parlando di appropriatezza delle cure si utilizza l’espressione “dr shopping” per indicare la peregrinazione delle persone alle ricerca di risposte di cura tra centri esperti e specialisti; in effetti, di questa espressione non abbiamo un corrispettivo Italiano. Noi stessi, ahimè – ammette la dott.ssa Chesi – parliamo di Medical Humanities, non soddisfatti delle traduzioni parziali che risultano nella nostra lingua.

Sull’anglicizzazione della nostra lingua abbiamo da poco rilasciato un Rapporto dettagliato, mentre da diversi anni alimentiamo e manuteniamo il dizionario della Alternative Agli Anglicismi di Antonio Zoppetti.

Concludiamo esprimendo la nostra soddisfazione nel vedere che il tema della lingua, della trasparenza del linguaggio e dell’influenza dell’inglese nella comunicazione scientifica, circoli sempre più tra i professionisti del settore. Auspichiamo una collaborazione sempre maggiore tra mondo delle professioni e linguistica perché ci si renda conto che il mondo, pur trovando nell’inglese un utile strumento di immediata comunicazione di base, resti saldamente plurilingue. E che dunque, in questo contesto, ci convenga mantenere la nostra lingua vitale e al passo con un mondo che evolve rapidamente. Specie in ambito scientifico.

 


Fonti:
– “Lingua inglese in sanità: davvero ci aiuta a comunicare meglio?“, di Marco Alaimo, 2016
– “Superare le barriere linguistiche, occhio agli inglesismi nella salute“, di Pier Raffaele Spena, 2022
– “Gli inglesismi nella comunicazione sanitaria usi e ‘abusi’?“, di Paola Chesi, 2017

In copertina: foto di cottonbro studio via Pexels


 


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