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La parola “Italia” è una denominazione geografica, una qualificazione che si riferisce alla lingua, ma che non ha il valore politico che gli sforzi degli ideologi rivoluzionari tendono a imprimerle, e che è piena di pericoli per l’esistenza stessa degli stati di cui si compone la penisola.
Questa frase celebre viene attribuita a uno dei nemici dell’Unità Italiana, di cui ricorrono proprio oggi i 160 anni, ovvero il principe di Metternich. L’austriaco Metternich era dunque cosciente del possibile valore della lingua in quanto segno di identità nazionale italiana. La lingua, la cui unificazione ha preceduto di molto in Italia il costituirsi di una nazione politica, traeva le sue linfe dalla cultura. Era la lingua di Dante, e lo stesso Dante, celebrato quest’anno nei 700 anni dalla sua morte, sarebbe diventato di lì a poco uno dei grandi padri della Patria.
Come ricordava il presidente dell’Accademia della Crusca Claudio Marazzini qualche tempo fa, Dante era stato davvero nel cuore e nello zaino di coloro che si erano battuti per l’Italia, leggendo i versi della commedia e la biografia del poeta in esilio con gli occhi di Mazzini. E se Mazzini si era impadronito di Dante, poteva farne a meno Vittorio Emanuele, primo re d’Italia?
A Dante si doveva la lingua d’Italia, perché, secondo la celebre formula resa popolare da Bruno Migliorini, Dante è appunto il “padre della lingua italiana”. La lingua si è dunque diffusa non con le conquiste territoriali, com’è stato nel Regno Unito, in Francia o in Spagna, ma grazie alla letteratura prima e alla Chiesa poi, che usava il toscano per i canti e il catechismo. Certo, nel 1861, come ci ha ben insegnato Tullio De Mauro, quella lingua italiana, che pure esisteva ed era servita per produrre capolavori letterari, difettava di popolarità, e quel difetto era segno di un problema politico-sociale enorme, che a stento è stato superato in 160 anni. La lingua italiana è quella che ci fa popolo italiano, e che fa italiani anche i nuovi italiani che arrivano da altre nazioni e continenti.
I volumi del primo censimento nazionale dedicano alla lingua uno spazio forse non così esteso da soddisfare tutte le nostre aspettative, ma non insignificante nell’equilibrio complessivo dell’impresa, e attento alla pluralità linguistica dell’Italia, a quella Italia delle Italie che si caratterizza per la varietà degli idiomi, dei dialetti e delle lingue di minoranza. Un’Italia polifonica, insomma, non monolitica. Il censimento offriva prima di tutto i dati numerici relativi alla consistenza di alcuni gruppi di alloglotti, indicando i comuni da essi abitati: francofoni, occitani, tedeschi del Monte Rosa, del Vicentino e del Veronese, i dalmati di Larino, albanesi e greci di Calabria e Terra d’Otranto, zingari di Molise e Abruzzo. Offriva poi un quadro dei dialetti italiani, classificati in sei gruppi, italo-celti, liguri, tosco-romani, napoletani, siculi, sardi. Stabilite le famiglie dei dialetti, l’estensore della nota statistica prendeva atto che il gruppo più forte per numero di parlanti era quello italo-celtico, caratterizzato da “origini e attinenze straniere”, ma concludeva, non a torto, che il gruppo tosco-romano era tuttavia superiore non solo perché di qui traeva alimento “la vita comune della nazione”, ma perché esso andava meglio d’accordo sia con il gruppo veneto, sia con quello meridionale. Era evocata, insomma, la ‘medietà’ del toscano. A questo punto, l’estensore della nota si avviava alla conclusione, soffermandosi sull’intima comunione tra i dialetti d’Italia, e la conseguente possibilità del passaggio all’italiano, grazie a quanto di comune già c’era nella nazione.
Era un tema allora molto sentito. Potremmo ricordare, a questo proposito, la commozione di tanti uomini della nascente nuova Italia provenienti da regioni periferiche, extratoscane, quando si trovavano di fronte, con sorpresa, a termini toscani che consuonavano con le loro parlate native. Così, per citare un nome illustre, Alessandro Manzoni, quando restava colpito dal fatto che vi erano tante consonanze tra la lingua parlata di Milano e quella della Toscana, consonanze impreviste, che Manzoni raccontava divertito a Tommaso Grossi in una lettera del 1827.
Nella prima metà del Novecento il processo di modernizzazione che investiva il nesso lingua-società continuò senza arrestarsi. La diminuzione dell’analfabetismo si accompagnava a una crescita dell’uso dell’italiano anche tra le masse popolari, non necessariamente secondo il modello manzoniano, e tuttavia con un’influenza del toscano talora molto forte, anche per effetto di alcune opere scritte, libri che riuscirono a raggiungere un numero enorme di lettori: non solo i Promessi sposi, diventato libro di scuola, ma anche Cuore di De Amicis, Pinocchio di Collodi e L’arte di mangiar bene e la scienza in cucina di Artusi. Come si vede, non erano tutti libri scritti da toscani, anche se tutti diffondevano una lingua italiana di marca profondamente toscana. Perché non sono stati i toscani, mai, a imporre la loro lingua, ma sono sempre stati gli altri italiani a sceglierla: così accadde durante e dopo l’Unità, come era accaduto al tempo di Dante e di Petrarca. La lingua italiana accomunava anche territori che mai entrarono a far parte dello Stato unitario, come la Corsica, dove fu ufficiale fino al 1859, Malta, e in gran parte dell’Istria e dell’Adriatico orientale, senza dimenticare i cantoni italofonia della vicina Svizzera.
Allora potremmo chiederci come sia questa lingua d’Italia dopo più di 1000 anni, dopo 160 anni di nazione politicamente unita, da cui si ricava, sia detto per inciso, che nella storia della nostra lingua solo una minima parte del cammino, è stato compiuto in una situazione in cui lingua e stato politico formassero un unico binomio. Noi parliamo ancora la lingua di Dante, e Dante ci è in questo senso contemporaneo. Parafrasando De Mauro, posso dire che la lingua italiana risuona oggi nelle fabbriche, nei commerci, nelle industrie, nelle scuole, nei laboratori, nei giornali e periodici, nelle sedi in cui si dibatte di politica e di convivenza civile. Ho saltato la parola “università” che pure ricorreva nella serie di De Mauro, perché qui si potrebbe aprire un discorso diverso sulle limitazioni che rischia l’italiano oggi, nel momento in cui la pur comprensibile ambizione allo scambio internazionale, che anima alcuni nostri colleghi delle scienze dure, li porta a credere che la lingua italiana possa essere estromessa d’autorità e completamente dalla didattica di livello alto, il che produrrebbe conseguenze gravissime nella comunicazione sociale del sapere. Esiste inoltre il tema degli anglicismi, che hanno raggiunto una quantità e una frequenza tale da suscitare persino una battuta del presidente del consiglio Mario Draghi, qualche giorno fa. Questo eccesso va frenato con l’esempio autorevole di moderazione, non con l’autoritarismo, e si deve vegliare perché termini forestieri non invadano il linguaggio delle leggi, a danno della comprensibilità e trasparenza.
L’unificazione italiana è apparsa a non pochi un “miracolo”, nel senso che si è trattato di un evento sognato, ma che avvenne in maniera inattesa e imprevedibile. Ora questa unificazione ha messo insieme culture e popolazioni diverse, ognuna con una sua lingua locale, spesse volte prestigiosa, ma con una storia e un destino comune, e una comune lingua, l’italiano, prima solo “lingua alta” e oggi – dopo 160 anni di vita comune – familiare strumento di convivenza civile.
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Fonti:
https://accademiadellacrusca.it/it/contenuti/150-anni-della-lingua-d-italia/7392
Foto di Federico Ghedini da Pixabay
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