Piccola riflessione per gli anglopuristi (e vediamo se vi si accende il light bulb)

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L’inaspettata battuta di Mario Draghi che pochi giorni fa durante un discorso che gli avevano preparato si è chiesto “chissà perché dobbiamo sempre usare tutte queste parole inglesi”, ha suscitato commenti e reazioni da varie parti. Certo, i soliti luoghi comuni degli anglomani che dipingono come un passatista retrogrado fascistoide dalla mentalità chiusa chiunque osi sostenere che in italiano i termini inglesi crudi stanno diventando troppi, a Draghi non si possono applicare, e questo ha spiazzato molti fieri sostenitori dell’anglopurismo.

Ma certo non mancano i commenti di chi sostiene che gli anglicismi sono necessari. Tra questi, vorrei citare un articolo apparso oggi su Repubblica, a firma di Riccardo Luna, dal titolo “Perché usiamo tutte queste parole inglesi e continueremo a farlo”.

La risposta che l’autore idealmente dà al Presidente del Consiglio è la seguente:
usiamo così tante parole inglesi perché non inventiamo più niente di nostro, importiamo oggetti e concetti con il relativo nome.

Se l’affermazione di per sé mi trova piuttosto d’accordo – purtroppo è vero che la nostra creatività come Paese in campo industriale, culturale e non solo non è certo al suo apice (da diversi anni ormai) – trovo abbastanza inverosimile che questo basti a giustificare l’uso massiccio di parole inglesi.

Perché, caro Luna, se dovessimo chiamare con il nome originario tutto ciò che è stato inventato o scoperto fuori d’Italia, senza adattarlo, la nostra lingua diventerebbe come quella degli omini gialli di un celebre cartone animato: un minestrone divertente ma incomprensibile di parole di lingue diverse. I nomi di molti frutti e ortaggi derivano dall’arabo, non solo in italiano, ma ciascuna lingua ha adattato la parola araba alle proprie regole e ai propri suoni, per cui noi abbiamo l’albicocca e la pesca, il francese o lo spagnolo hanno parole “loro” corrispondenti, e così via.

Del resto, seguendo il ragionamento del giornalista, non dovremmo accendere la lampadina per illuminare una stanza, ma un light bulb, oggetto nato nel mondo anglosassone. E invece non lo chiamiamo così, e neanche “bulbo luminoso”, ma, appunto lampadina, usando una metafora diversa, quella di una “piccola lampada”. Allo stesso modo non printiamo con la printer né scaldiamo i cibi con il microwave oven, ma usiamo stampante e forno a microonde.

Per qualche motivo, però, a un certo punto abbiamo deciso (d e c i s o) di smettere di fare ciò che per una lingua è la cosa più naturale del mondo: adattare i concetti del mondo al suo sistema di riferimento. Creando neologismi o adattando, italianizzando (come la parola bistecca che viene da beef steak). Il forestierismo crudo c’è sempre stato, anche se spesso adattato nella pronuncia (es. tunnel e non tànnel) o di per sé utilizzabile senza stravolgere l’ortografia (sport, bar, film si “dicono come si leggono”). Si tratta di una delle strategie possibile. Ma in italiano quella del forestierismo crudo è ormai l’unica strategia. Peraltro riferita – salvo rare eccezioni – a una sola lingua, l’inglese, e con prestiti che diventano stabili e si espandono invadendo anche ambiti d’uso più ampli (si sente sempre più spesso “link” usato per indicare un collegamento concettuale o una relazione tra persone).

Quindi mantenere un nome inglese per cose nate negli Stati Uniti o nel Regno Unito non è né automatico né naturale, tanto è vero che fino a 30 anni fa l’italiano lo faceva molto poco, e che nelle altre lingue neolatine continua ad essere così. I quotidiani di lingua francese e spagnola non hanno edizioni online ma en ligne, o en linea, e in quei Paesi si usano raton e souris, e non il mouse, computadora o ordinateur e non computer, redes sociales o réseaux sociaux e non social network, e potrei continuare a lungo. Tutte invenzioni nate oltreoceano. E dunque Luna può ben dire che “tutte queste cose non le abbiamo inventate, le abbiamo adottate, parole comprese”. Vale anche per 450 milioni di ispanofoni, 250 di lusofoni, 180 di francofoni, ma l’anglicismo crudo lo usiamo solo noi.

E francamente fa sorridere anche la sua argomentazione mangereccia: “gli inglesi e gli americani non si scandalizzano di chiamare pasta e pizza alcuni cibi, il tiramisù è intraducibile, mica lo chiamano “get-me-up”, lo ordinano al ristorante proprio come noi (così come a tavola il MontBlanc non è il Monte Bianco ma un dolce francese con molta panna)”.

Se è vero che nella cucina, nella lirica, nell’arte abbiamo esportato (o esportammo, dato che tutto ciò avveniva parecchi decenni, se non secoli, fa) è anche vero che questo meccanismo non è automatico. Il caffelatte in inglese si chiama “latte” (che da noi evidentemente è un’altra cosa). E il futurismo nato in Italia, nell’attraversare la Manica o l’Atlantico, ha perso una O, diventando futurism. Allo stesso modo francese e spagnolo hanno adottato alcuni anglicismi crudi (in Francia è diffuso smartphone così come hashtag, in Spagna si dice software…) ma in misura molto minore.

Le mie riflessioni sono molto semplici e immediatamente verificabili, sono fatti sotto gli occhi di tutti. Eppure la schiera di chi semplicemente ignora la realtà appare ancora molto ampia. E mentre i politici parlano per sbaglio di “cargiver“, inciampando sull’ossessione anglomane che hanno contribuito a creare, c’è chi sulle reti sociali si strappa i capelli perché la sonda marziana Perseverance non viene pronunciata correttamente nei telegiornali italiani. Questi sono i veri problemi linguistici, gente! Anglicismo puro e pronunciato perfettamente, please.

Inutile dire che l’autoerotismo linguistico di cui parla l’autrice del commento è perfettamente applicabile anche al di lei ragionamento. E che questo invece è meno praticato in Francia o Spagna, con buona pace degli internazionalisti italiani incapaci di guardare cosa succede in Europa, a due passi da noi.

In Italia avremmo bisogno di discutere serenamente su ciò che vogliamo essere, oggi e nel futuro. Con argomentazioni serie, non con teorie campate in aria come quelle nell’articolo odierno di Repubblica. Discutere su quale vogliamo che sia il nostro ruolo nel contesto internazionale, come Paese, come comunità. Proprio oggi ricorre il 160° anniversario dalla nascita dello Stato unitario italiano, cui la comune lingua “alta”, il toscano letterario poi divenuto lingua di tutti, diede un contributo decisivo. Dobbiamo decidere se, in un mondo globalizzato ma comunque saldamente plurilingue, questo bene comune, l’italiano, vogliamo mantenerlo vitale oppure lasciarlo appassire e divenire inadatto ad esprimere le novità del mondo.

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