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Nel Bel Paese sono in crescita i corsi universitari — sia quelli triennali che quelli magistrali — che sono tenuti completamente in inglese. Vista l’importanza internazionale e professionale di quest’ultimo, dovrebbero arrivare i primi campanelli d’allarme oppure bisogna abbracciare questi cambiamenti come un passo necessario per svilupparsi e crescere? In questo articolo, vorrei dire la mia sulla anglicizzazione delle università italiane e proporre delle soluzioni attuabili.
Che una conoscenza dell’inglese apra molte porte è un dato di fatto. La lingua francese, ad eccezione di varie parti d’Africa, ha perso rilevanza sul palcoscenico mondiale: pur giocando un ruolo fondamentale nella diplomazia e nell’arte in passato, negli ultimi decenni, come tutti sappiamo, è stato soppiantato dalla lingua inglese come principale lingua veicolare in molti settori della società. Per questo motivo, va da sé che una buona conoscenza di questa lingua da parte della forza lavoro è una risorsa importante a livello individuale e anche per le aziende e dunque per l’economia più in generale. Eppure, dobbiamo chiederci se è giusto che l’insegnamento dell’inglese vada a scapito della posizione dell’italiano all’interno della società italiana. Per chi ritiene inverosimile questa situazione, il seguente dato può essere utile: secondo una ricerca di Adecco Italia su dati presi dagli atenei, nell’anno accademico erano 666 i corsi erogati in lingua inglese sul territorio nazionali. Dati comparabili con quelli della CRUI in un rapporto che riguarda invece i corsi post-laurea. Del resto, anche Italofonia.info aveva già pubblicato numeri a questo riguardo, per esempio qui e qui.
C’è chi sostiene che tale tendenza sia dovuta alla “crescente popolarità degli atenei italiani tra gli studenti internazionali,” e per quanto sia importante essere accoglienti e ospitali nei confronti di chi arriva dall’estero (anche se molti di questi studenti non sono di madrelingua inglese), mi sembra assurdo che le università italiane abbiano scelto di ribaltare lo status quo linguistico per vezzeggiare un gruppo di persone che rappresentano una esigua minoranza della popolazione studentesca del paese. Detto per esperienza personale — io sono nato e cresciuto a Londra — se noi anglofoni spesso ci aspettiamo che tutto il mondo possa rivolgersi a noi in inglese, non sarebbe ugualmente ragionevole che l’Italia si aspettasse che i suoi studenti anglofoni si prendessero la briga di imparare l’italiano? A prescindere dal valore commerciale dell’inglese, è certamente irrispettoso trasferirsi in un altro paese senza tentare di impararne la lingua.
Permettendomi di intrecciare la mia esperienza vissuta e il mio punto di vista in questa discussione capitale, quest’anno ho compiuto uno studio all’estero presso l’Università di Pavia. Pur essendo stata un’occasione indimenticabile e preziosissima per contestualizzare gli strumenti teorici che il mio corso di laurea in italianistica a Cambridge aveva inculcato in me — ripenserò sempre con affetto al tempo passato qui — la scoperta che svariati esami offerti dalla facoltà di linguistica dell’ateneo pavese erano insegnati esclusivamente in lingua inglese mi ha lasciato allibito. Non solo era deludente che io non potessi più studiare i contenuti che trovavo più interessanti nella stessa lingua che puntavo così vivamente a padroneggiare, ma anche mi pareva iniquo e perfino inverosimile che i concetti fondamentali della materia potessero essere fraintesi da chi non conoscesse bene la mia madrelingua. Andando altresì oltre ciò che ho vissuto a livello individuale, temo che la politica linguistica italiana che sto dibattendo possa infangare la percezione della lingua nazionale all’interno dell’immaginario collettivo. Mi spiego meglio: se un qualche governo non ritiene la lingua organica dei suoi cittadini degna d’utilizzo nell’istruzione terziaria, c’è chi poi direbbe che, secondo quella logica, quella lingua dev’essere in qualche modo inferiore a quella che l’ha soppiantata. Va da sé, certo, che una simile convinzione sarebbe nientemeno che una sciocchezza strepitosa, ma il fatto è che detto governo avrebbe comunque spalancato un vaso di Pandora dalle conseguenze profonde e vaste.
In più, lasciando perdere l’eventuale presunzione dei suddetti atteggiamenti, è scontato che saranno gli studenti e le studentesse italiani ad essere sfavoriti dall’anglicizzazione degli istituti di istruzione post-scolastica d’Italia. Anche se un individuo che si è iscritto ad una laurea triennale tenuta in inglese è padrone della lingua inglese, cognitivamente parlando la sua capacità di conservare informazioni e di comprendere concetti astratti è inferiore nella sua seconda lingua e perciò esiste il rischio che una generazione di neolaureati bilingui ma privi di dimestichezza settoriale entri nella società. Poi naturalmente c’è il fatto innegabile che la lingua, la cultura, e l’identità di una nazione si collegano tra loro. Io temo dunque che se la lingua italiana continua a rimanere in secondo piano nell’ambito dell’educazione, l’identità culturale del popolo italiano perderà vigore, proprio come è già avvenuto con i dialetti gallo-italici e greco-italioti, i cui parlanti restanti sono perlopiù persone della terza età.
Tuttavia, se è vero che l’inglese è una lingua la cui importanza mondiale non può essere sottovalutata, e similmente se riconosciamo anche che l’emarginazione dell’italiano come lingua di insegnamento rappresenta un motivo di preoccupazione, che cosa possiamo fare? Quale strada dovremmo percorrere? A mio giudizio, la soluzione potrebbe essere in essenza abbastanza semplice: utilizziamo l’italiano come mezzo di istruzione in tutte le lauree triennali e nella grande maggioranza delle lauree magistrali che si offrono. Però, allo stesso tempo, facciamo sì che il superamento di un esame di base di lingua inglese sia un requisito che i laureandi italiani avrebbero bisogno di soddisfare, soprattutto in determinati percorsi di studio. Così si garantisce il ruolo dell’italiano e al contempo la conoscenza dell’inglese ove necessario. Insomma, come si dice in italiano, si prendono “due piccioni con una fava”.
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Sull’autore
Caspar Pullen-Freilich
Poliglotta inglese che studia lingue straniere (italiano, spagnolo, e greco moderno)
presso l’Università di Cambridge. Parla 5 lingue ed è particolarmente
appassionato dei dialetti di origine greca che si parlano in determinate località di
Calabria e Puglia. Ha vissuto a Pavia durante il suo periodo di studi in Italia.
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