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Da anni l’Accademia della Crusca si batte per la tutela della presenza dell’italiano nelle università. Per questo motivo eravamo certi che, mettendola in copia delle centinaia di messaggi inviati dai lettori del nostro articolo sulla vicenda di Rimini, l’Accademia non sarebbe rimasta sorda agli appelli. E così è stato.
Nel Consiglio direttivo del 22 febbraio 2024, la Crusca ha deciso di prendere ufficialmente posizione contro la decisione dell’Università di Bologna di chiudere il corso in italiano di Economia del Turismo presso la propria sede riminese. Corso triennale che, tra l’altro, aveva già anche un percorso in lingua inglese.
Facendo esplicito riferimento al nostro sito e ai tanti messaggi inviati attraverso di esso, il presidente Paolo D’Achille ha indirizzato una lettera aperta al rettore dell’ateneo bolognese, Giovanni Molari, e alla ministra dell’università e della ricerca, Anna Maria Bernini.
Nella lettera, annunciata sul sito dell’Accademia e disponibile qui nella versione integrale in formato pdf, il presidente – dopo aver riconosciuto l’autonomia di ogni ateneo in accordo col Ministero – ricorda ai rappresentanti dei due enti alcuni punti salienti circa il rapporto tra lingua italiana e università italiana:
- Il corso in inglese è un corso triennale e tra gli obiettivi di tutti i corsi di laurea triennale, di qualunque classe, figura, per legge, quello che chi consegue il titolo abbia un pieno possesso dell’italiano; come può essere assicurato questo obiettivo da un corso “la cui didattica si svolgerà interamente in lingua inglese”, come è specificato sul sito dell’Alma Mater?
- Esiste una esplicita sentenza della Corte costituzionale che, pur ammettendo e anzi promuovendo la didattica in inglese, richiede espressamente che la lingua italiana non venga estromessa del tutto da ogni corso di studi, tanto che anche il Politecnico di Milano, che prevedeva corsi (peraltro magistrali e non triennali) interamente in inglese, ha tenuto almeno parzialmente conto di tale sentenza inserendo qualche insegnamento (pur se secondario e/o opzionale) in italiano. Come è possibile che tale sentenza venga ignorata?
- Il titolo del corso, Economia del turismo nella dismessa intitolazione italiana, Economics of Tourism and Cities in quella inglese, parla di turismo ed è verosimile pensare che ci si riferisca a quello che ha per oggetto l’Italia, le sue città, il suo incomparabile patrimonio di beni naturali, artistici, archeologici, storici e culturali. Possibile che in questo quadro la lingua italiana sia tagliata del tutto fuori? Ma i nomi delle città, degli artisti, delle opere, dei Musei, non sono ancora in italiano?
- La progressiva eliminazione dell’italiano dall’insegnamento universitario (come pure dalla ricerca) in vista di un futuro monolinguismo inglese costituisce, come ha osservato anche la European Federation of National Institutions for Language (EFNIL), un grave rischio per la sopravvivenza dell’italiano come lingua di cultura, anzitutto, ma anche come lingua tout court, una volta privata di settori fondamentali come i linguaggi tecnici e settoriali.
Una presa di posizione autorevole e importante, che ricorda obblighi morali e di legge verso la nostra lingua. Speriamo che la ministra Bernini e il rettore Molari, in quale era in copia di tutti i messaggi, insieme ai responsabili del corso di laurea e al titolare dell’offerta universitaria presso l’ufficio per il Diritto allo studio del MUR, prendano atto che ciò che sta succedendo a Rimini è dannoso non solo per la nostra lingua, ma per gli studenti e gli imprenditori del territorio. Non solo quello riminese, perché il corso in italiano attraeva studenti da molte località turistiche dello Stivale, Puglia, Abruzzo e Campania in testa. Ce ne parlava, sconsolata, una albergatrice di Rimini, madre di un maturando alle prese proprio con la scelta del suo prossimo percorso universitario.
Finora l’Università degli Studi di Bologna ha ignorato ogni protesta e ogni appello. Costretta a una risposta dopo la mole di messaggi giunti in poche ore, l’ateneo ha commentato al Resto del Carlino che non intendeva desistere da ciò che ritiene un tassello di un più ampio “processo di razionalizzazione e rilancio dell’offerta formativa”.
Il professor Michele Gazzola, che si occupa di politiche linguistiche e insegna nel Regno Unito, presso l’Università dell’Ulster, da noi interpellato sull’argomento ci ha risposto così: “La parola chiave nell’articolo per capire quello che sta succedendo e succederà nei prossimi 20 anni è ‘razionalizzazione’. Le università hanno prima aperto corsi paralleli in italiano e in inglese, e adesso stanno chiudendo quelli in italiano perché costa troppo averne due uguali, e perché tanto sanno che col corso in inglese possono coprire sia il mercato nazionale (sempre più piccolo a causa della denatalità) sia quello internazionale. Tanto lo studente italofono non ha scampo, può studiare in italiano sono in Italia (e in pochissimi altri posti all’estero), quindi se lo si priva del corso in italiano non andrà via”.
Tanto lo studente italofono non ha scampo. Parole forti, che certo non dipingono degli atenei che agiscono esclusivamente nell’interesse degli studenti. Proprio delle motivazioni della progressiva anglificazione delle università italiane, Gazzola ha parlato in diversi suoi articoli, e anche al Festival “La lingua madre” dello scorso 21 febbraio a Roma. In quella sede ha dichiarato che il motivo principale sono le classifiche internazionali, elaborate per la maggior parte negli Stati Uniti e che hanno nel numero di studenti e docenti stranieri un criterio di gran peso. In teoria il criterio di per sé ha senso: se un ateneo è prestigioso e lavora bene, attirerà persone da fuori. Ma il problema, dice Gazzola, sorge quando queste classifiche non sono più lo specchio del livello qualitativo di una università, ma diventano l’obiettivo, il fine ultimo da raggiungere a ogni costo. Gli atenei modificano i propri corsi per attirare, attraverso l’inglese, più studenti e docenti esteri, per poter scalare le classifiche. Il tutto, aggiungiamo noi, infischiandosene sia degli studenti sia del tessuto produttivo italiano dove i nostri giovani dovrebbero andare a lavorare dopo la laurea. E infatti a Rimini per la prima volta sono stati proprio gli imprenditori a protestare contro questa scelta, tramite la loro associazione di categoria.
L’intervento di Gazzola al Festival è stato molto interessante, con dati e cifre illuminanti, e gli dedicheremo un articolo a parte. Potete intanto rivederne la registrazione qui, a partire dal minuto 31:00. Gli ha fatto eco il rettore dell’Università di Cagliari, il quale ha detto che gli atenei sono addirittura finanziati sulla base del numero di corsi erogati in inglese. Dunque un meccanismo perverso che spinge le università ad attivare corsi in quella lingua per poter ottenere più fondi dallo Stato. Uno stato che prosegue nella sua folle politica contro la sua stessa lingua.
Una follia che ora comincia a causare danni al settore produttivo. Si comincia col settore alberghiero. Noi continueremo a seguire la vicenda per fare da cassa di risonanza alle voci coinvolte nella vicenda. E non ci stancheremo mai di stimolare un dibattito finalmente sano e razionale sul tema dell’inglese nell’alta formazione. Perché le università non sono aziende, ma organizzazioni in grande maggioranza finanziate dalle tasse dei cittadini, che devono come prima missione produrre sviluppo sociale ed economico sul territorio. Non comparire in liste e classifiche o cercarsi studenti-clienti in giro per il mondo.
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In copertina: foto da wikimedia, sede dell’Accademia della Crusca, Firenze.
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