Rampelli: «C’è un’emergenza culturale, la tutela della lingua italiana è un dovere»

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La proposta di legge sulle “disposizioni per la tutela e la promozione della lingua italiana, l’istituzione del Comitato per la tutela, la promozione e la valorizzazione della lingua italiana”, di cui è primo firmatario Fabio Rampelli, vicepresidente della Camera, ha scatenato un vespaio di polemiche trasformando purtroppo il dibattito in una battaglia politico-ideologica. Italofonia ha intervistato in esclusiva Rampelli, chiedendogli una riflessione complessiva sulla sua iniziativa legislativa partendo dalle ragioni che l’hanno indotto a elaborare un provvedimento del genere.

«Il nostro partito si chiama Fratelli d’Italia e conserva un forte senso patriottico, che si estrinseca nel rispetto delle proprie radici, della propria identità e della propria tradizione culturale. Il perenne abuso di lingue straniere, in particolare di quella inglese, ha preso da tempo il sopravvento in maniera anomala, compulsiva, fino al punto di determinare dei riflessi condizionati. Mi è capitato di trovarmi a spiegare concetti prendendo in prestito vocaboli dall’inglese senza trovare nell’immediato un corrispondente termine italiano. Mi sono preoccupato, la circostanza mi ha generato addirittura ansia, non mi piace rovistarmi in testa per trovare un vocabolo straniero quando ce n’è uno in italiano. Ho capito che c’è un’emergenza culturale, una sorta di azione punitiva per la lingua. Ho pensato che fosse necessario studiare per arginare il fenomeno. Così ho guardato in Francia e mi sono ispirato alla legge Toubon, figlia della tutela della lingua francese in Costituzione».

Considerando l’ironia di alcuni deputati di opposizione, le perplessità della Crusca e la freddezza anche della sua parte politica, non sarebbe stato meglio illustrare prima la proposta di legge? E poi, perché le multe?

«E’ la terza legislatura nella quale presento la legge, la prima nella quale esiste la possibilità di farla approvare. In verità le consultazioni con i soggetti deputati ci sono già state in occasione nella mia prima proposta sulla legge della lingua in Costituzione nella quale, ricordo, non ho dimenticando i dialetti, che sono lingue locali importanti. L’Accademia della Crusca, la Società Dante Alighieri, l’Istituto Treccani sono stati coinvolti attraverso un dibattito pubblico alla fine del quale ho riscontrato sinceri apprezzamenti. Ho quindi presentato le due proposte di legge: la prima sull’inserimento in Costituzione della lingua italiana, per la quale spero che non ci siano particolari ostacoli, la seconda sulla tutela della lingua. Ci sono state manifestazioni di becera ironia, ma forse perché ho toccato un nervo scoperto. D’altronde c’è chi parla e chi fa. Per quel che concerne le multe, rispondo con una domanda. Quale legge dello Stato, di qualunque Stato, che provveda a dare delle regole, non contempla anche delle sanzioni per chi trasgredisce? In caso contrario si tratterebbero di mere affermazioni di principio destinate a rimanere affisse al muro. La legge è un’altra cosa e dà degli indirizzi. La cosa grave, falsa, infondata e scorretta, maldestra è la mole di notizie messa in circolazione dalla parte avversa per raccontare che le sanzioni colpirebbero i singoli cittadini che usassero vocaboli stranieri. Una cosa fuori dal mondo, errata anche ontologicamente, perché intaccherebbe i principi di libertà. Ogni cittadino può parlare nelle modalità che desidera. Le sanzioni sono previste, e ne sono orgoglioso, per quei soggetti che in Italia che operano per nome e per conto dei cittadini o che dai cittadini intendono trarre vantaggi economici o egemonici. Mi riferisco all’amministrazione pubblica e non esiste che si esprima nei propri documenti, atti, leggi, regolamenti, contratti, utilizzando parole in lingua straniera, non solo per ragioni culturali, e già basterebbe, ma per ragioni di accesso alla democrazia da parte dei cittadini più deboli. In Italia meno del 20 dei cittadini hanno una buona conoscenza dell’inglese, meno del 40 per cento hanno una conoscenza scolastica, quindi tutti gli altri cittadini non conoscono l’inglese. Ora secondo coloro che fanno ironia questi cittadini dovrebbero essere estromessi dal “dialogo” con la pubblica amministrazione, impossibilitati a comprendere i jobs act, le moral suasion, le spending review, che appaiono spesso nei documenti ufficiali dello Stato, ma anche in quelli delle grandi aziende partecipate che si alimentano dalle tasse dei cittadini che non conoscono l’inglese e mi riferisco a Eni, Enel, Tim, Terna, Leonardo, una pletora di soggetti che operano in Italia e agiscono sui nostri interessi. Ciò è grave e si impongono delle sanzioni. Rammento a me stesso che forse sanzioni da 5mila a centomila euro sono minime, sono quasi pentito di aver previsto sanzioni così basse».

D’accordo sulla volontà di ripulire la comunicazione ufficiale da inutili forestierismi, ma non sarebbe stato più efficace concordare, d’intesa con i suoi principali interlocutori istituzionali, una serie di raccomandazioni da inoltrare alla rete della Pubblica amministrazione?

«I miei tentativi si conoscono, pur essendo ai tempi in un partito all’opposizione con una minima rappresentanza. Sono sempre stato sensibile al problema. Ricordo di aver inviato una lettera all’amministratore delegato di Aeroporti di Roma perché a Fiumicino tutte le indicazioni sono solo in inglese. Non si capisce perché un turista che arriva in Italia e voglia calarsi nel clima culturale del Paese non debba farlo con la lingua del luogo e trovi invece comunicazioni in inglese. Magari arriva da New York e trova “welcome”. C’è questa sorta di provincialismo. Nella scorsa legislatura sono già stato vicepresidente della Camera e nel mio ruolo ho convinto gli uffici di Montecitorio a non scrivere testi parlati con parole straniere e quando non ho avuto successo ho corretto io stesso i testi del Governo o dei gruppi parlamentari, suscitando talvolta polemiche e malumori. Ho risposto che non mi risultava che nella Camera dei Lord si abusasse di parole italiane».

Perché Paesi come Spagna e Francia, dove si traduce tutto e vi sono leggi di tutela sulla lingua madre, non vengono tacciate di essere autarchiche, culturalmente reazionarie o retrive? 

«Non so perché, facendo una battuta, l’ultima volta che sono stato in Francia ho visto la gente con la clava inseguire tutti coloro che non rispettavano la tutela della lingua in Costituzione, la legge Toubon, quella del diritto alla comprensione. Evidentemente succede anche in Spagna, Portogallo e in altre 17 nazioni dell’Unione europea dove la lingua è in Costituzione. Ritornando seri, l’Italia è un Paese particolare, qualunque cosa viene ricondotta al ventennio fascista, è triste perché limita anche la libertà di pensiero, qualsiasi tipo di proposta se la fai da destra è un problema, se lo fa una personalità di sinistra non desta preoccupazione. Le ferite della Seconda guerra mondiale non si sono ancora rimarginate, evidentemente».

Perché secondo lei in Italia manca la percezione dell’importanza della lingua madre?

«Nel secondo dopoguerra l’Italia è come se avesse perso la propria identità, schiacciata nel bel mezzo della cortina di ferro tra due le concezioni culturali atlantista e socialista. Il mondo diviso in blocchi si è incontrato proprio in Italia, terra di confine, con il più forte Pci occidentale e con la più forte presenza americana. Nessuna tra le personalità italiane più influenti ha percepito il pericolo di un ridimensionamento della nostra identità tentando di far comprendere che si poteva stare nella Nato, ma con una propria dignità culturale. In tal senso sottolineo che l’Unione sovietica era comunista, ma molto patriottica. Il colpo di grazia è giunto con la globalizzazione, il mercato esteso ha previsto l’uniformità dei gusti, dei meccanismi produttivi, dei linguaggi attraverso la lingua inglese, idioma dominante. Dal punto di vista culturale, l’Italia non si può permettere di essere sottomessa a chicchessia. Ecco perché noi andremo avanti nella nostra battaglia culturale per la tutela delle differenze e quindi del multilinguismo. Un pianeta uniformato dal punto di vista culturale è destinato a sparire».

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