Ma siamo proprio sicuri che la Francia sia un Paese monolingue?

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Estate, per molti di noi tempo di viaggi. Ne approfitto dunque per riportare una mia recente esperienza durante un soggiorno nella capitale francese, che vorrei prendere come spunto per una breve riflessione su un luogo comune che spesso in Italia attribuiamo ai cugini d’Oltralpe. Ovvero che siano orgogliosamente monolingui, e che in un certo qual modo godano nel (fingere di) non capire l’interlocutore che cerchi di comunicare in un idioma diverso dal francese. La famigerata “Legge Toubon” del 1994 sarebbe la dimostrazione di come questa sadica tendenza sia stata eletta a sistema.

Andiamo con ordine. Mi sono recato a Parigi per lavoro e ho aggiunto un fine settimana e un paio di giorni di ferie per farmi raggiungere dalla famiglia e visitare con loro la città. Durante il soggiorno ho dunque avuto a che fare con personale di aeroporti, albergo, musei, colleghi di lavoro e persone comuni. Inoltre ho potuto osservare il cosiddetto “panorama linguistico” parigino, ossia come le varie lingue appaiono agli occhi di chi osserva, su cartelli, insegne, e via dicendo.

Mentre la segnaletica stradale è interamente in francese (come in Italia è in italiano, del resto), e le insegne commerciali risentono delle tendenze e del turismo (l’inglese è molto presente ma per esempio anche l’italiano e l’arabo, per motivi differenti), i cartelli in alcuni luoghi specifici sono più interessanti. Mi riferisco in particolari al trasporto pubblico e alle relative stazioni e aeroporti. Sbarcando a Paris Orly la prima cosa che si nota è che all’interno dell’aeroporto internazionale è che tutte le scritte sono in francese, inglese e cinese. Nella maggior parte degli aeroporti italiani di questo tipo, non solo i cartelli sono scritti solo in italiano e in inglese, ma il nome dell’aeroporto è solo in inglese. A volte con punte di ridicolo, se pensiamo al Caravaggio International Airport di Bergamo o al Turin Airport del capoluogo piemontese. Come se la scritta “aeroporto” con accanto l’icona di un aereo e la vista di decine di velivoli che decollano e atterrano non fosse sufficiente a far identificare il luogo a un turista.

Spostandosi in metropolitana per raggiungere la metropoli, ci si rende conto che anche qui non vige affatto il monolinguismo francese né il bilinguismo col solo inglese. Tutti i cartelli nelle stazioni e nei vagoni sono sempre scritti almeno in francese, inglese e spagnolo, a cui in molte stazioni si aggiungono tedesco e italiano. Allo stesso modo la voce registrata che annuncia la stazione presente e quella successiva parlano in francese, inglese e spagnolo, sia sulla metropolitana che sui treni suburbani della RER. In città diverse il ruolo dello spagnolo può essere sostituito da qualcos’altro, per esempio in Corsica o a Nizza si troverà l’italiano in un ruolo di primo piano.

Tutto questo non è un caso. Proprio la legge Toubon, spesso frettolosamente bollata in Italia come sciovinista e votata al protezionismo linguistico, contiene al suo interno precise disposizioni a favore del plurilinguismo. L’idea alla base della legge è certo quella di garantire un “diritto al francese” ma anche quello di inserire questo diritto in un panorama di multilinguismo e plurilinguismo. La “minaccia” non è quello dell’inglese a fianco di altre lingue ma quello di una marginalizzazione di queste altre lingue, che conduce a un progressivo monolinguismo inglese. Per questo, nei luoghi dove è necessario scrivere non solo in francese (come appunto nei mezzi di trasporto usati da molti stranieri) devono essere usati almeno altri due idiomi oltre al francese.

Anche tra la popolazione giovane, tra l’altro, non solo l’inglese è studiato e conosciuto in media quanto in Italia, ma si studia anche altro. Lo spagnolo è molto richiesto, e mi è capitato di ricevere aiuto da una giovane passante che in un ottimo italiano mi ha assistito nello scegliere il giusto tipo di abbonamento dal distributore di biglietti alla stazione. Una collega francese di lontane origini italiane stava studiando la nostra lingua e si è detta delusa di non aver potuto studiare in italiano durante l’Erasmus a Torino perché “i corsi che volevo fare erano solo in inglese”.

Il confronto con grandi città italiane come Roma o Milano è impietoso. Da noi non si concepisce che esistano persone che non conoscono l’inglese o che possano trovare più semplice o più comodo ricevere informazioni nella propria lingua. Non solo in Italia, ovviamente: durante un viaggio a Budapest e Vienna ho notato un sostanziale bilinguismo con il solo inglese. Dunque la Francia, in questo, rappresenta una differenza a mio modo di vedere virtuoso. Ciò non vuol dire che un certo sciovinismo non sia presente, né che il governo francese non abbia un problema di centralismo e scarsa considerazione delle proprie lingue regionali, come gli amici di Corsica Oggi insegnano. Ma senza ombra di dubbio di pongono sistematicamente il problema della lingua e della chiarezza, dai livelli più alti a quelli quotidiani.

Forse è il caso di rifletterci e chiederci se non sia invece il nostro atteggiamento ad essere chiuso e provinciale. Buon rientro e buona ripresa a tutti.

 

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