La funzione di trasparenza ed equità della lingua italiana nel settore commerciale, tra tutela collettiva e orientamenti contrastanti

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Nel dibattito sull’abuso degli anglicismi un capitolo importante lo riveste necessariamente il tema della comunicazione commerciale.
Infatti, in Italia, assistiamo in tale campo ad una presenza sempre più crescente della lingua inglese, e non solo, al posto della lingua italiana sulle confezioni dei prodotti in vendita. Il problema principale di questa comunicazione è quello della tutela dei consumatori inerente le qualità del bene o servizio da acquistare, specie nel campo delle informazioni che possono attenere alla tutela della salute e, comunque, la qualità nonché funzionalità del prodotto, dato che non si può considerare la lingua inglese come seconda lingua nazionale. Infatti, è sempre più facile imbattersi in prodotti e servizi presentati in lingua straniera, non solo in lingua inglese ma anche cinese, romena, ecc., per non parlare di quelle presenti in rete, ove addirittura anche le richieste di consenso sui dati personali sono molte volte formulate in altre lingue.

Eppure, esistono norme che prevedono limiti a tale fenomeno. La più significativa di queste è il Decreto Legislativo n. 206 del 2005, meglio conosciuto come Codice del Consumo. Questo decreto prescrive, all’art. 9 comma 1, che “tutte le informazioni destinate ai consumatori e agli utenti devono essere rese almeno in lingua italiana”. Al successivo comma 2, è previsto che “qualora le indicazioni di cui al presente titolo siano apposte in più lingue, le medesime sono apposte anche in lingua italiana e con caratteri di visibilità e leggibilità non inferiori a quelli usati per le altre lingue”. Letti così i due commi di questo articolo, pare chiaro che non siano permesse indicazioni sui prodotti in commercio solamente in lingua straniera ovvero anche in italiano ma con caratteri più piccoli e/o in maniera parziale. Ciononostante, la questione sembra controversa, oltre che sottovalutata nonché poco praticata a livello di controlli e repressione. In ispecie vi sarebbero prassi commerciali ed amministrative nonché giurisprudenza (sebbene ancora scarsa a riguardo) che andrebbero a limitare la suddetta prescrizione. Occorre, inoltre, considerare in merito il rischio di un mal interpretato terzo ed ultimo comma del predetto articolo, laddove prevede che “sono consentite indicazioni che utilizzino espressioni non in lingua italiana divenute di uso comune”.
Un altro principio suscettibile di produrre un’interpretazione restrittiva dello stesso art. 9 sono gli artt. 34 e ss. del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE) i quali, tutelando la libera circolazione delle merci nell’Unione, vietano provvedimenti che possano restringere quantitativamente l’esportazione di merci tra gli Stati membri in ogni sua forma.

Venendo alla questione che potrebbe porsi con il summenzionato comma 3 dell’art. 9 D.Lgs. 206/2005, occorrerebbe fare chiarezza su cosa si potrebbe intendere con il significato di espressioni straniere “di uso comune”, perché questo, se inteso in senso particolarmente ampio, potrebbe permettere la facile sostituzione di termini italiani con quelli stranieri generalmente di uso commerciale o, comunque, utilizzati in determinati ambiti, ovvero da poco utilizzati nelle pubblicità, ma ancora non facenti parte del linguaggio popolare. Tali termini verrebbero, in tal modo, ugualmente tollerati nelle etichettature e presto utilizzati come indicazioni del prodotto, anche con il proposito di rendere diffusamente conosciuto il relativo termine straniero e, così, mettere presto consumatori e autorità di controllo dinnanzi a un fatto compiuto.
Si pensi ai casi non solo delle indicazioni delle caratteristiche del prodotto ma anche della denominazione dello stesso quale quello del burro di arachidi, chiamato in confezioni di taluni marchi “peanut butter”, senza essere accompagnata da analoga denominazione in lingua italiana (almeno visibile come quella inglese) e che da qualche anno ormai tollerato nei supermercati nonostante sia un termine (ancora) non di uso comune. E’ evidente che in un tal caso vi sia una interpretazione del concetto di “uso comune” alquanto ampia e, si potrebbe affermare, arbitraria, a misura piuttosto di produttore e non di consumatore.

Riguardo, poi al suindicato principio sancito dal TFUE, esiste una sentenza di merito, precisamente del tribunale di Como, del 29 maggio 2024 che in virtù di tale trattato ha ristretto la portata del predetto art. 9 del Codice del Consumo. Questo provvedimento, revocando una ordinanza di confisca di prodotti elettronici che era stata disposta a causa dell’assenza della traduzione in italiano di talune informazioni apposte sulle confezioni ed etichette dei prodotti, ha motivato basandosi sul presupposto che le indicazioni in lingua straniera si riferivano ad informazioni aventi essenzialmente carattere pubblicitario e che quelle, invece, rilevanti la tutela diretta del consumatore erano comunque in italiano; in questo richiamando, altresì, l’art. 49 c.p. inerente il requisito del principio di offensività.
Questa motivazione del tribunale lascia perplessi in merito a ciò che si intenderebbe effettivamente leso ed i confini della tutela del consumatore. Ossia, se la prescrizione dell’art. 9 C.d.C. tuteli solo le informazioni che riguardano le caratteristiche essenziali di un prodotto, allora la sentenza sarebbe giustificabile; ma non sembra che tale articolo limiti il principio della comunicazione trasparente solo a questo.
Vi sarebbe da aggiungere, inoltre, che, sempre in campo unionale, sussiste una ulteriore tutela della trasparenza della comunicazione in materia di prodotti alimentari, il Regolamento UE 1169/2011 ove, all’art. 15 comma 1, viene previsto che “[…] le informazioni obbligatorie sugli alimenti appaiono in una lingua facilmente comprensibile da parte dei consumatori degli Stati membri nei quali l’alimento è commercializzato”; per cui, va da sé che le relativa informazioni in Italia debbano essere in italiano.
In ogni caso, occorrerebbe non dimenticare che esiste un principio generale riguardante la nostra lingua che è inserito nell’art. 1 della legge 482/1999 secondo il quale “La lingua ufficiale della Repubblica è l’italiano”; principio non sanzionato, questo, ma che, se inserito in un sistema normativo più vasto, come quello qui trattato, può allora esprimere una sua forza, almeno di carattere interpretativo, per cui, nel caso in questione, porterebbe ad estendere la portata della prescrizione dell’art. 9 il quale è, invece, accompagnata da specifici divieti e sanzioni previsti dai successivi artt. 11 e 12.

Quindi, se si inserisce nella interpretazione delle norme del C.d.C. anche quella della legge 482, i prodotti in commercio dovrebbero ancor più indicare tutto in lingua italiana; questo anche in riferimento al comma 2 del menzionato art. 1 della L. 482 che indica il fine della previsione del precedente comma 1, ossia il “valorizza[re] il patrimonio linguistico e culturale della lingua italiana”; quindi, un obiettivo ben più vasto del solo vincolo informativo limitato alle informazioni sulla qualità e caratteristiche essenziali di un prodotto commerciale. Tale principio è ancora più rafforzato se consideriamo quanto affermato dalla Corte Costituzionale in materia di lingua nazionale, secondo cui questa è “vettore di storia e dell’identità della comunità nazionale […] da preservare e valorizzare”, impedendo che altre lingue possano essere “intese come alternative alla lingua italiana” (sent. 42/2017).

Di conseguenza, stando così le cose, una tutela del consumatore deve essere più estesa di quella delineata dal tribunale di Como e non si limiterebbe solo alle informazioni essenziali ma si estenderebbe, invero, al consumatore (o utente) non solo in quanto tale ma anche come cittadino in generale; inoltre, essa potrebbe fondatamente elevarsi anche ad interesse collettivo, cioè nazionale, se si considera altresì l’interpretazione derivante dalla citata sentenza della Consulta.
Pertanto, emerge l’esigenza di garantire che le informazioni inerenti prodotti e servizi siano indicati possibilmente tutti in lingua italiana e inseriti, come prescrive il menzionato art. 9, con caratteri non inferiori ad eventuali analoghi termini in lingua straniera, affinché tutti gli italiani possano essere adeguatamente informati e tutelati, senza alcuna distinzione in termini di istruzione o, comunque, di conoscibilità delle lingue straniere. Esigenza, questa, che in virtù della definizione di “ufficialità” della lingua italiana, di cui all’art. 1 della legge 482, farebbe sorgere anche un obbligo di tutela da parte di chi commercia tali beni con corrispettivi diritti dei consumatori.

Insomma, la lingua italiana conserva, oltre una funzione culturale e di identità collettiva, anche il ruolo di strumento necessario di trasparenza, tutela di interessi collettivi ed equità.
A fronte di questo, diventa importante intervenire contro la diffusa illegalità delle pratiche commerciali qui denunciate e promuoverne le buone pratiche, Pertanto, è auspicabile che governo e autorità amministrative preposte pongano in essere norme e pratiche di attuazione e controllo di trasparenza e tutela dei diritti conseguenti, in maniera diffusa ed efficace.

L’autore

Francesco Ricciardi è avvocato, si occupa a vario titolo di questioni sociali, diritti umani ed immigrazione, tutela in giudizio dei meno abbienti (anche quale membro delle due relative commissioni interne all’Ordine degli Avvocati di Roma), diritti dei lavoratori a partita iva e degli avvocati in particolare (anche come ex presidente dell’Associazione Difensori di Ufficio di Roma).

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