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Si è conclusa oggi, con la sentenza del Consiglio di Stato italiano, una vicenda che ha preso avvio nel 2012 e che è di importanza cruciale per il presente – e il futuro – della lingua italiana. E, di conseguenza, per i circa 70 milioni di madrelingua che nel mondo la parlano, di cui la maggior parte vive proprio in Italia.
L’organo giurisdizionale della Repubblica italiana ha stabilito definitivamente l’illegittimità della decisione presa a suo tempo dall’ateneo milanese: abolire tutti i corsi di laurea magistrale e di dottorato in lingua italiana, rendendoli disponibili esclusivamente in lingua inglese.
Il senato accademico del “PoliMI” aveva decretato, con un atto del 2012, che l’inglese diventasse “lingua ufficiale dell’ateneo” e che, a partire dall’anno accademico 2014/14 tutti i corsi avanzati si tenessero esclusivamente in questa lingua.
Contro la decisione si erano levate da subito le voci di circa 600 docenti del Politecnico (all’incirca la metà). Tra loro anche moltissimi professori che l’inglese lo conoscono bene e che da anni conducevano interi corsi in questa lingua. Il motivo era per prima cosa didattico. Obbligare studenti italiani a seguire la lezione e interagire con il docente esclusivamente in lingua inglese, senza che ve ne fosse una reale necessità, semplicemente avrebbe impoverito la didattica. Esprimersi in una lingua diversa da quella materna richiede mediamente uno sforzo maggiore e impone una tendenza alla semplificazione. Tendenza aumentata dal fatto che non tutti gli studenti tra i banchi hanno il medesimo livello di conoscenza della lingua inglese.
Dopotutto, appare un’osservazione di buon senso. Anche perché, ricordiamolo, il Politecnico è una scuola di alta formazione per creare figure professionali nel campo dell’ingegneria e dell’architettura. Non è una scuola di lingue.
I docenti invitarono il rettore e il senato accademico a ritirare la decisione, ma l’ateneo andò per la sua strada. A quel punto, un centinaio tra quei docenti, decisero di prendere le vie legali, guidati dalla professoressa Maria Agostina Cabiddu, ordinario di Istituzioni di diritto pubblico. Il loro ricorso presentato al Tar della Lombardia è vittorioso: nel 2013 il tribunale regionale sentenzia che il Politecnico di Milano debba tornare sui suoi passi.
Attenzione, si noti bene: nessuno chiedeva di abolire i singoli corsi di laurea o i singoli insegnamenti in lingua inglese, né di non aprirne di nuovi. Semplicemente si domandava di non abolire totalmente e indiscriminatamente tutta la formazione di livello avanzato in italiano.
Niente da fare, il Politecnico milanese, fiancheggiato dal Ministero dell’Istruzione e della Ricerca della Repubblica italiana, fece ricorso, appunto, al Consiglio di Stato, nel tentativo di riuscire ad abolire la lingua italiana dall’ateneo, a quanto pare unico vero ostacolo all’internazionalizzazione dell’università italiana.
Il Consiglio chiese un parere alla Corte costituzionale italiana, sollevando dubbi sulla conformità costituzionale della decisione del Politecnico. La sentenza della suprema corte arrivò con la sentenza n. 42 del 21/02/2017. La sentenza, a suo modo storica, non impedisce l’utilizzo dell’inglese o di altre lingua diverse dall’italiano nell’insegnamento universitario in Italia, ma pone dei paletti precisi. E’ possibile istituire anche interi corsi di studio in lingua inglese, ma in alcun modo la lingua italiana può essere marginalizzata ed esclusa totalmente. La scelta di un’altra lingua dev’essere regolata da principi di necessità. Insomma, dove ha senso si può affiancare o sostituire alcuni corsi in italiano con altri in inglese, ma non in modo generalizzato e senza criteri precisi alla base di questa scelta.
La sentenza finale del Consiglio di Stato di due giorni fa recepisce quanto enunciato dalla Corte, che ribadisce l’importanza e la funzione della lingua italiana in nome della tutela del patrimonio culturale, del principio d’eguaglianza, della libertà d’insegnamento e dell’autonomia universitaria.
«Anche in settori nei quali l’oggetto stesso dell’insegnamento lo richieda», spiegano sul dispositivo. Perché provocherebbe un «illegittimo sacrificio» dei principi costituzionali del primato della lingua italiana richiamati dalla Corte Costituzionale.
Prima di tutto perché interi corsi di inglese «estrometterebbe integralmente e indiscriminatamente la lingua ufficiale della Repubblica dall’insegnamento universitario di interi rami del sapere» e «imporrebbe, quale presupposto per l’accesso ai corsi, la conoscenza di una lingua diversa dall’italiano, così impedendo, in assenza di adeguati supporti formativi, a coloro che, pur capaci e meritevoli, non la conoscano affatto, di raggiungere “i gradi più alti degli studi”, se non al costo, tanto in termini di scelte per la propria formazione e il proprio futuro, quanto in termini economici, di optare per altri corsi universitari o, addirittura, per altri atenei».
Non solo. Secondo il Consiglio insegnare totalmente in inglese può esser lesivo della libertà di insegnamento, sottraendo al docente la scelta sul «come comunicare con gli studenti, indipendentemente dalla dimestichezza ch’egli stesso abbia con la lingua straniera». Impossibile quindi erogare un intero corso di laurea in inglese. Ma l’ateneo può affiancare all’erogazione di corsi universitari in lingua italiana corsi in lingua straniera, anche in considerazione della «specificità di determinati settori scientifico-disciplinari».
Più che giustificata dunque l’esultanza del presidente dell’Accademia della Crusca Claudio Marazzini, che ha dichiarato: “Finalmente, una volta tanto, è arrivata la pronuncia definitiva che dà ragione totalmente e integralmente alla lingua italiana. Una bellissima vittoria”.
Vittoria guardata con interesse e soddisfazione anche dalle accademie spagnole e francese. Perché il tentativo di anglificare completamente le università non è un tema solo italiano.
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