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La prestigiosa rivista scientifica statunitense Nature ha deciso di lanciare in alcuni Paesi europei delle versioni locali. Nel momento in cui l’Italia ha ancora una volta deciso di obbligare all’uso della sola lingua inglese chi vuole chiedere finanziamenti statali per Progetti di ricerca di rilevanza nazionale (Prin), la rivista americana decide di affiancare agli articoli in inglese quelli in altre lingue europee.
E non solo: il privilegio del primo articolo bilingue è toccato proprio all’italiano.
Lo scorso ottobre è andato in linea ufficialmente il sito di Nature Italy, che si presenta come una “casa per la scienza” in cui saranno pubblicati sia articoli in lingua italiana che in inglese. Il sito si propone di diventare “un punto di riferimento per la comunità scientifica italiana, nel senso più ampio del termine. Scienziati affermati o giovani a inizio carriera, studenti universitari, dottorandi. Medici, professionisti della politica della ricerca e dell’istruzione superiore. Chi fa ricerca in Italia e gli scienziati italiani che lavorano all’estero.” Ma anche uno strumento di divulgazione verso il pubblico italiano.
Il supplemento italiano farà da apripista ad altre edizioni europee. Ma perché proprio all’Italia tocca l’onore di questo ruolo?
Lo racconta Nicola Nosengo, direttore della nuova testata:
La comunità scientifica italiana è tra le più produttive al mondo, come dimostrano la maggior parte delle statistiche sulle pubblicazioni scientifiche. Professori italiani ricoprono cattedre e posizioni di prestigio presso le principali istituzioni scientifiche mondiali. Ovunque, gli studenti italiani sono tra i più richiesti per posti di dottorato.
Convincere la politica italiana e il grande pubblico a occuparsi seriamente di scienza e ricerca, invece, si è rivelato più difficile. Per anni l’Italia ha investito cronicamente poco in ricerca e innovazione, spendendo molto meno, in rapporto al PIL, della media europea e OCSE. Ogni volta che l’Italia ha dovuto tagliare la spesa pubblica per affrontare una crisi economica, la ricerca e l’istruzione sono state tra le prime vittime.
Di conseguenza, il sistema italiano della ricerca è arrivato pericolosamente vicino al collasso. Il flusso costante di giovani e brillanti menti verso altri paesi, in cerca di opportunità di carriera, è solo il sintomo più visibile.
Da un lato, quindi, il riconoscimento del peso che la produzione scientifica italiana ha avuto e ha tuttora, nel mondo. Dall’altro la volontà di contribuire a parlare di più di scienza e a stimolare investimenti e dibattito, tanto più in un periodo cruciale e delicato come quello pandemico che stiamo vivendo.
Ma come mai la scelta di pubblicare anche in italiano? Nosenghi non ne parla esplicitamente, quindi proviamo a fare delle considerazioni.
Se uno degli obiettivi è quello di diventare un punto di riferimento per un panorama nazionale, per gli addetti ai lavori ma non solo, appare sensato e logico aprire anche alla lingua nazionale di quel Paese. In questo caso, l’italiano.
Inoltre, ci sono tendenze globali che forse aiutano a capire ulteriormente la scelta di Nature di ampliare l’offerta delle sue edizioni locali. Se l’inglese è ormai da anni la lingua franca di molte scienze, la produzione scientifica in altre lingue non si è fermata. E anzi, in alcuni casi sta crescendo. Qui sotto riportiamo dati non recenti (si fermano al 2011) che però fotografano bene la situazione:
Questo grafico rappresenta le pubblicazioni contenute in uno degli indici più famosi di citazioni scientifiche, Scopus. Analizzando il corpus delle pubblicazioni si riscontra che esse sono scritte per l’80% in inglese.
Questa supremazia, però, non è riscontrabile nelle stesse proporzioni in tutti i Paesi. Guardate il grafico qui sopra, creato dal sito Researchtrends analizzando proprio la banca dati di Scopus. La proporzione di pubblicazioni scientifiche in inglese rispetto alla lingua ufficiale nazionale è elevatissima (e crescente negli anni) in Olanda e Italia, molto più bassa e in crescita lieve in Germania e Francia, bassa e stabile in Spagna, bassa in Russia, dove però è esplosa tra il 2008 e il 2011, mentre in Brasile è addirittura in diminuzione e in Cina bassissima.
I dati si fermano al 2011 e purtroppo non siamo ancora riusciti a ottenerne di più recenti, ma è significativo notare come un luogo comune – quello dell’inglese d’obbligo sempre e comunque nelle pubblicazioni scientifiche – sia vero in Italia ma non necessariamente in altri Paesi dalla tradizione accademica comparabile, come Francia, Spagna e Germania, e tanto meno in Paesi emergenti come Brasile e Cina.
Il gigante asiatico, tra l’altro, è stato protagonista nel 2018 di uno storico sorpasso sugli Stati Uniti, conquistando il primo posto per numero di articoli scientifici pubblicati. Terza, l’Unione europea nel suo complesso. Questo dato, unito all’alta proporzione dell’uso del cinese della ricerca citata più sopra, fa capire come in futuro la letteratura scientifica non anglofona sarà probabilmente ben lungi dallo scomparire. Ne abbiamo parlato più in dettaglio in questo articolo.
La proprietà di Nature sembra dunque aver compreso – per prendere le parole della scienziata e accademica della Crusca Maria Luisa Villa – che “il plurilinguismo conserva tutto il suo valore di stimolo al pensiero anche nel mondo globalizzato”. Un fatto che i governanti italiani, così come purtroppo larga parte della sua comunità scientifica, sembra non riuscire a comprendere. Che gli articoli di Nature possano aiutarli a capire che il mondo, non solo scientifico, è troppo complesso e variegato perché una sola lingua basti ad esprimerlo? Noi ce lo auguriamo.
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