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Anche per il 2021 i Progetti di ricerca di interesse nazionale (Prin) che chiedono finanziamenti al Ministero dell’Università e della Ricerca italiano, dovranno essere presentati obbligatoriamente in lingua inglese. Una versione italiana può essere presentata in modo facoltativo, e questo equivale a dire che nella grande maggioranza dei casi non viene redatta. Tutto ciò avviene ormai da diversi anni. Dal 1998 era stata introdotta una versione inglese facoltativa, poi divenuta obbligatoria insieme a quella italiana. E infine la sola lingua obbligatoria diventa l’inglese. Sottolineiamo che si tratta di progetti di rilievo “nazionale”, non internazionale. E mettiamo anche in evidenza che non si parla solo di scienze pure ma anche di scienze umane, compresi progetti relativi al diritto o altre materie strettamente legate alla legislazione italiana.
La motivazione è quella di rendere accessibile l’esame dei progetti proposti anche da parte di tecnici e scienziati non italofoni, ampliando la platea degli esaminatori ed auspicabilmente la qualità dei progetti accettati. Potremmo ribattere che esistono professionisti stranieri che conoscono l’italiano, o che potrebbero sfruttare riassunti in inglese a fronte di un testo completo in italiano. Ma sorvoliamo. Diciamo che sarebbe sufficiente l’obbligatorietà anche della nostra lingua, accanto all’inglese.
È quanto afferma Claudio Marazzini, in una lettera aperta al ministro titolare del MIUR, Gaetano Manfredi. La lettera, inviata nel novembre 2020 senza mai ricevere risposta diretta dal Ministro, è stata resa pubblica qualche giorno fa sul sito dell’Accademia.
Lo scopo di questa protesta – giunta anche da parte di altre istituzioni e persone – non è, come scrive Marazzini, quello di “smuovere la burocrazia per uno specifico atto” ma di “sollecitare la riflessione su di un tema di grande importanza per la sopravvivenza della lingua italiana come strumento di elevata cultura, collegato all’uso dell’italiano negli atenei, argomento su cui si è discusso tempo fa, coinvolgendo il Consiglio di Stato e la Corte costituzionale”.
Il presidente dell’Accademia chiarisce perfettamente l’importanza della posta in gioco:
Tutti gli studiosi devono accettare lo sforzo di farsi intendere dalla comunità scientifica di riferimento, ma al tempo stesso tutti dovrebbero maturare il massimo rispetto della loro lingua nazionale, per quanto questo possa costare loro un po’ di fatica, favorendo comunque lo sforzo del tradurre, che è sempre un modo per riflettere vantaggiosamente su significati e contenuti, come ci insegnava Umberto Eco. Dico questo sapendo che già oggi alcuni membri della nostra comunità accademica appoggiano la soluzione adottata dal MIUR, sostenendo, quasi con vanto, di non essere in grado di discorrere in italiano della loro scienza. Proprio in questa affermazione sta il pericolo più grave: una lingua che non venga usata per la scienza, che anzi ne sia reputata contenitore impossibile, decade rapidamente al rango di dialetto. L’italiano non merita questa fine, e il MIUR non dovrebbe avere interesse a favorire una decadenza del genere.
Come abbiamo detto, il Ministro non si è degnato di rispondere a questa lettera, ma proprio oggi tramite un’intervista a La Repubblica ha indirettamente fornito una risposta. L’articolo del quotidiano è citato in fondo alla lettera di Marazzini sul sito della Crusca. In buona sostanza la risposta di Manfredi lascia a intendere che usare il solo inglese sia garanzia di trasparenza e di conseguenza di spendere il denaro pubblico (italiano ed europeo) per progetti che davvero valgono. Una preoccupazione, lascia capire, più importante di quella dell’Accademia sulle sorti dell’italiano come lingua del sapere e della scienza.
Se questa è la classe politica italiana, difficile credere che sia in grado di parlare di politica linguistica con l’apertura mentale e la lungimiranza che questo tema meriterebbe.
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