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Come per la politica, anche per la lingua italiana gli anni ’90 possono considerarsi gli anni della svolta.
Scuola dell’obbligo e servizio militare erano stati a lungo quasi le sole occasioni per parlarla. Poi erano arrivati i giornali, mentre i primi grammofoni la portavano nelle case a suon di musica. Era giunta poi la radio. Ma era il 3 gennaio del 1954 ad aprire d’autorità alla lingua del Sommo Poeta le porte delle famiglie d’Italia, quando la vera signora delle comunicazioni di massa, la televisione, si apprestava a forgiare definitivamente il comune linguaggio e, con esso molta parte dello stesso vivere italiano.
Con il volgere del secondo millennio, la lingua italiana assume poi gradualmente nuovi contorni e nuovi spazî anche su scala internazionale.
Con 74.000 iscritti a corsi di lingua
presso gli Istituti Italiani di Cultura
e 30.000 tra allievi e studenti presso scuole
italiane nel mondo, la lingua dello Stivale sembra inoltre contendere in quel frangente posizioni di rilievo nel panorama internazionale ad altre lingue importanti quali, per esempio, il francese.
Grazie anche all’accresciuta motivazione a diffonderla all’estero con
iniziative più incisive quali la
Settimana della Lingua Italiana nel Mondo, volte a sottrarla ai ristretti circoli elitarî dei salotti accademici per calarla nell’arena di un più vasto pubblico, l’interesse per l’Italia, la sua cultura, il suo stile di vita, ecc. vede, in questo scorcio di secolo, un aumento da più parti insperato.
Quanto poi agli auspici di chi vorrebbe per l’italiano un futuro di lingua franca nel bacino del Mediterraneo, iniziative che facciano pensare a risvolti del genere vanno da un programma pilota di quegli anni da parte del governo libanese mirante ad introdurre l’italiano quale seconda lingua straniera in tutte le scuole primarie dell’antica Fenicia, mentre l’Albania non è da meno, e decide di fare lo stesso già in cento istituti scolastici. E’ inoltre bilingue (serbo e italiano)l’insegnamento nelle scuole del litorale montenegrino, mentre sono note le trattative con Slovenia e Croazia a favore della comunità italiana dell’Istria e del Quarnaro.
Ed è infatti l’Europa dell’Est che, dopo l’89 torna gradualmente a guardare all’Italia in virtù di una naturale tendenza a porre in simbiosi
la Penisola con quel settore del Vecchio Continente, più che con quello occidentale.
Le migliaia di imprenditori italiani nella Romania occidentale rendevano necessaria, con la loro presenza, l’apertura della sezione italiana presso un liceo a Timisoara, mentre un vero e proprio liceo italiano operava a Kiscinau, in Moldavia, come pure a Praga.
Classi bilingui entravano in funzione nelle scuole primarie tedesche delle aree a maggiore presenza di emigrati italiani, mentre in Inghilterra, specie al Nord, trovavano ampio riscontro le pubblicazioni per imparare l’italiano, e nel lussuoso quartiere londinese di Chelsey, noto per la locale squadra di calcio riportata a suo tempo in auge da capitale, allenatore e calciatori italiani, “baby sitters” dal “Bel Paese” risultavano largamente preferite dalle famiglie bene, convinte dell’opportunità di far acquisire ai propri parvoli le prime nozioni dell'”idioma gentil, sonante e puro”.
Non più dunque solo lingua del bel canto e del buon mangiare, ma, come ebbesi a dire da qualche parte, anche lingua di preti e di calciatori. Già, perché, o in tonaca sotto l’egida del Vaticano, o in maglietta e pantaloncini, Roma (nel primo caso) o l’Italia in generale nel secondo sono pressoché d’obbligo per chi vuole far carriera. Sarebbe infatti un po’ difficile pensare di rimanere in un paese dovendo comunicare quotidianamente con la realtà locale senza conoscerne la lingua. Certo, in Italia vi sono anche importanti sedi ed uffici di organizzazioni internazionali: la FAO a Roma, l’ufficio torinese dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, mentre Trieste ospita diverse istituzioni scientifiche internazionali. Ma si tratta per lo più di realtà i cui addetti non sono per lo più destinati a lunghe permanenze ed il cui intenso lavoro spesso lascia poco tempo per un approccio con l’esterno. Con i loro colleghi comunicano per lo più in una lingua occidentale, soprattutto l’inglese. Ciò non può dirsi per i calciatori, a stretto contatto con il pubblico degli stadî e con l’informazione, in un ambiente tutt’altro che da Nazioni Unite o da riunioni di lavoroper manager di multinazionali. Se poi parliamo dei religiosi, chiamati proprio dalla propria stessa missione a comunicare con tutti, addetti ai lavori o no, allora è presto detto.
Ecco dunque l’italiano, una lingua che, tra un “Pace e bene”, un pallone e una mangiata, si parla sempre più a 360 gradi, col dotto professore, con l’operaio o con il piccolo e medio imprenditore.
Secondo un’indagine del 1998, gli iscritti a corsi di italiano arrivavano al milione.
In un articolo sull’Osservatore Romano del 24 ottobre 2004, Mario Gabriele Giordano, esaltava il buon momento dell’italiano nel mondo, mentre ammoniva sonoramente sulla scarsa attenzione rivoltagli in patria.
Padre Federico Lombardi, direttore, all’epoca, dei Programmi di Radio Vaticana, sottolineava invece come “nella chiesa cattolica universale l’uso della lingua italiana è importante e significativo al di là del suo peso all’interno del panorama internazionale linguistico laico. Costituisce la lingua di lavoro della curia romana”. La lingua del luogo in cui si formano i diplomatici della Chiesa, coloro che la rappresenteranno nei vari Paesi. A Roma sono presenti 10.000 studenti da tutto il mondo, tra seminaristi e sacerdoti che innanzitutto si devono dedicare al suo apprendimento”.
“Da un punto di vista politico e sociale, penso che la lingua
italiana abbia un valore molto grande all’estero, sottolineava Marco Cardinali, responsabile della redazione ‘Orizzonti Cristiani’ di Radio Vaticana, e aggiungeva: “in ambito ecclesiastico, moltissimi sono coloro che hanno studiato presso facoltà teologiche del
vaticano”.
In America Latina, ad esempio, l’italiano si percepisce come una lingua che ricorda gli hermanos italianos. César Sturba, consulente dell’allora Arcivescovo di Buenos Aires, Jorge Maria Bergoglio, futuro Papa Francesco, non esitava ad affermare la necessità che non venga dimenticata la lingua imparata a Roma, lingua di giustizia, equilibrio e unione per tutti. E soggiungeva: “Abbiamo ‘pay per view’ e guardiamo sulla Rai i film senza sottotitoli. I preti argentini devono conoscere la nostra lingua , ma non è un fatto spirituale. Al di là della Chiesa, sempre più argentini cercano di recuperare il proprio legame con questa cultura.”
Parlando poi dei legami affettivi fra gli italiani e la popolazione locale nella sua diocesi, Mons. José MarÌa Rossi, vescovo di Concepción, trecento chilometri a nord di Buenos aires, così si esprimeva: “L’italiano è la lingua che, da piccolo, sentivo parlare dalla
mia nonnina. Mi è rimasta una simpatia per la sua dolcezza e la sua musicalità”.
Del resto l’argentina è forse il paese più “italiano” delle Americhe, dato che, stando ad alcune stime, sarebbe la componente italica ad aver superato in percentuale quella ispanica di coloniale memoria: di qui le conseguenti richieste di riconsiderare la posizione della lingua italiana anche in sede istituzionale.
Ma è un po’ in tutta l’America Latina che l’apporto degli Italiani risulta ancor oggi determinante, giacché essi ebbero il fondamentale merito di far nascere nella regione quel ceto medio sino ad allora scarsamente presente, riproponendo oltre oceano quella piccola e media azienda, carta di identità dell’imprenditoria in Patria.
Sessanta milioni, Secondo le stime più prudenti, sarebbero, più o meno, i discendenti italiani sparsi nei cinque continenti, ma che stime più benevole vorrebbero in cento e più milioni: una vasta comunità globale cui le moderne tecnologie della comunicazione offrono vieppiù l’opportunità di compattarsi ed acquisire quindi peso sulla scena mondiale.
“Dal punto di vista della nostra esperienza di comunicatori della Chiesa”, continuava il direttore di Radio Vaticana ed alle cui parole affidiamo la conclusione di quest’articolo, “l’italiano rappresenta una lingua importante nonché la più utilizzata nella maggioranza dei discorsi pronunciati in Vaticano dal Santo Padre. Il fatto che il Pontefice parli in italiano conferisce una grande autorevolezza e diffusione alla nostra lingua che
diventa la lingua portatrice di messaggi di pace, di fratellanza tra i popoli oltre che di evangelizzazione”.
Recitava un anonimo: “L’Italia non è mai stata una razza o un’espressione geografica. L’Italia è un’idea e un modo di concepire il mondo: l’Italia è universale”.
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