Scienza, nuovo fondo stessa solfa: se vuoi aiuto dallo Stato italiano devi usare l’inglese

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L’italiano oggi ha un grande nemico, agguerrito, che non perde occasione per sferrare attacchi sempre più duri alla lingua di Dante, proprio nell’anno che celebra i 700 anni dalla morte del Poeta, uno dei padri nobili della nostra lingua. Questo nemico, forse inaspettatamente per alcuni, è la Repubblica italiana.

L’ennesimo colpo sferrato dallo Stato contro la propria lingua è il nuovo Fondo italiano per la scienza (FIS), istituito con il decreto Sostegni bis (dl 73-2021), che sostiene la ricerca nel contesto dei programmi di alta qualificazione. Le risorse a disposizione ammontano a 50 milioni di euro per il 2021 e 150 milioni a decorrere dal 2022.

La scorsa settimana il Ministero dell’Università e della Ricerca italiano (MIUR) ha pubblicato il primo bando per accedere alle risorse del fondo. Leggendo l’articolo introduttivo e il testo completo del bando, notiamo per prima cosa che l’organizzazione stessa del fondo riprende pedissequamente la nomenclatura inglese del  Consiglio europeo della ricerca, lo European Research Council (ERC), articolando i finanziamenti in due livelli: lo Starting Grant per i ricercatori emergenti e l’Advanced Grant per i ricercatori affermati. Non solo: le proposte progettuali dovranno fare riferimento ai macrosettori di ricerca individuati dall’ERC: Life sciences (LF), Physical Sciences and Engineering (PE) e Social Sciences and Humanities (SH).

Ma questa questione di forma – seppure triste e umiliante – non è nulla rispetto alla sostanza, che troviamo espressa chiaramente nel bando, all’articolo 7:

Le domande di partecipazione devono essere presentate in lingua inglese, a pena di esclusione ed irricevibilità

L’obbligo dell’inglese non riguarda solo la presentazione della domanda. Leggiamo più sotto:

Il Principal Investigator, il cui progetto superi nella seconda fase la soglia minima pari al
punteggio di 22/25, sarà invitato ad un’intervista in lingua inglese, volta a valutare
l’attitudine del PI a svolgere autonomamente la ricerca e/o a coordinare il gruppo di ricerca,
che consisterà in una sessione di domande e risposte (susseguente alla presentazione del
progetto da parte del PI stesso, anch’essa in lingua inglese) a cura di membri del CNVR
assistiti, ove necessario, da esperti.

I ricercatori che lavorano al progetto in università italiane o altri enti idonei siti in Italia, per ottenere sostegno finanziario dallo Stato italiano devono utilizzare esclusivamente la lingua inglese come unico mezzo di comunicazione ufficiale parlata o scritta, durante tutto il processo. Questo, molto semplicemente, significa escludere l’italiano da uno dei settori chiave del mondo moderno, quello della scienza e della ricerca. Un atto estremamente grave, sia perché viene portato dalle istituzioni dell’unico grande Paese italofono, l’Italia appunto, sia perché va ad arricchire una serie di decisioni simili, come quella del Politecnico di Milano di eliminare l’italiano dalla formazione avanzata, e quella dello stesso MIUR di escluderlo dai Prin, i progetti di ricerca di rilevanza nazionale.

Di per sé il fatto di escludere volutamente l’italiano dall’ambito scientifico è già grave, ma sfocia nel ridicolo se pensiamo che tra gli ambiti di ricerca ci sono anche le scienze umane e sociali. Ragion per cui, come scrive il giornalista Paolo di Stefano del Corriere della Sera nel suo articolo “Studiate Boccaccio ma solo in inglese”, capiterà che candidati italiani illustreranno a commissari italiani, in inglese, la loro ricerca sulla poesia di Montale.

Cosa c’è dietro queste decisioni? Cosa spinge i politici e i vertici delle maggiori istituzioni scientifiche dell’ottava economia del mondo, Paese del G7, ospitante una delle comunità scientifiche più attive al mondo (come riconosciuto dalla rivista Nature nel lanciare la sua edizione in italiano), a sbarazzarsi della propria lingua madre come un peso inutile, costringendo i suoi ricercatori e i suoi docenti all’uso di quella che resta una lingua straniera, per quanto bene la si possa conoscere?

Difficile rispondere. Giustificare decisioni tanto assurde rappresenta uno sforzo notevole, ma possiamo tentare.

Un possibile indizio possiamo trarlo dalla lettura di un punto dell’articolo di presentazione del fondo, sul sito del MIUR:

Per entrambe le linee di attività, il Principal Investigator (il ricercatore di qualunque nazionalità che si assume la responsabilità di coordinare le attività di ricerca condotte nell’ambito del progetto per cui si sottopone la candidatura)può presentare una proposta progettuale da svolgersi presso una organizzazione ospitante tra le seguenti istituzioni italiane:

  • Accademie di Belle Arti,
  • Conservatori,
  • Università e istituzioni universitarie italiane, statali e non statali, comunque denominate, comprese le scuole superiori a ordinamento speciale,
  • enti pubblici di ricerca,
  • soggetti giuridici con finalità di ricerca, purché residenti e con stabile organizzazione nel territorio nazionale, a cui lo Stato contribuisca in via ordinaria,
  • Istituti di ricovero e cura a carattere scientifico (IRCCS), pubblici e privati, aventi sede operativa in tutto il territorio nazionale

Questo paragrafo sottolinea due cose. La prima è che il ricercatore principale può essere di qualunque nazionalità, la seconda è che deve lavorare in un istituto con sede sul territorio italiano.
E dunque perché l’inglese? Per via di due dogmi che negli ultimi vent’anni si sono imposti nel Bel Paese:

  1. Internazionale = inglese.
    Se un’iniziativa si rivolge anche a pubblico non italiano, si deve ricorrere per forza all’inglese. La stessa motivazione è alla base dell’esclusione dell’italiano dal Prin.
  2. Italia ≠ italiano.
    La lingua italiana non è più ritenuta il mezzo di comunicazione naturale delle attività che si svolgono sul territorio nazionale. L’inglese è passato da essere la lingua in cui congressi ed eventi internazionali svolti in Italia venivano tradotti in simultanea, affiancando l’italiano, ad essere la lingua unica, che esclude l’italiano dal contesto. Non avviene più solo in ambito scientifico e professionale, ma in quasi ogni settore.

Di fronte a tutto questo la politica si compatta. Peccato però che si compatti contro l’italiano, a favore di una transizione verso il monolinguismo inglese. Lo fa ogni giorno, attraverso la scelta di riempire di anglicismi i propri discorsi pubblici e i testi delle leggi, la scelta di dare un nome inglese alla piattaforma che dovrebbe diffondere la cultura italiana nel mondo, o di escludere l’italiano da università e consessi scientifici. Scarsa stima dell’Italia, degli italiani e delle loro potenzialità, scarsa lungimiranza, desiderio di dare al proprio operato un senso di modernità posticcio ma utile a fini elettorali, che si ottiene verniciando d’inglese ogni iniziativa.

Riteniamo tutto ciò triste e controproducente per il futuro dell’Italia, per la sua capacità di mantenere vitali la proprio cultura e il proprio saper fare, così da portarlo come contributo originale nel mondo. La strada che stiamo tentando, molto tortuosa e impervia, è quella di stimolare il dibattito parlamentare su una legge organica e di ampio respiro che faccia nascere una politica linguistica per l’italiano, equilibrata ma efficace.

Puoi leggerla e decidere di condividerla, per aiutarci a portarla all’attenzione delle commissioni parlamentari dove giace dallo scorso marzo e poi in aula. Aiutaci a fare in modo che l’italiano non diventi un pezzo da museo ma continui ad essere uno strumento di conoscenza e cultura anche per le prossime generazioni, non solo di italiani.

 


Foto di felixioncool da Pixabay


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