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« Coronavirus en France : vrais clusters et fausse rumeurs »( LeMonde , 14/07/2020)
« Brexit : risque de no deal » (Capital.fr, 06/08/2020)
« Fake news, une fausse épidémie ? » ( Le monde diplomatique , nº172, 08-09/2020).
Così titolano l’attualità alcune delle principali testate giornalistiche in Francia. L’onda d’urto degli anglicismi, che dagli Stati Uniti si espande verso tutta l’Europa (e non solo), pare non aver risparmiato nemmeno i nostri cugini d’oltralpe. Ammaliati dall’ english sound, tra un building ed una fashion week, i Francesi indietreggiano di fronte all’egemonia linguistica anglosassone.
Eppure furono gli stessi Francesi che, nel 1994, accolsero la nota legge “Toubon” (1), pensata per difendere la lingua di Molière dai forestierismi; lingua detentrice del primato nel mondo della diplomazia fino agli inizi del ‘900. Questa legge, a grandi linee, impone l’idioma nazionale nell’insegnamento, nel lavoro, e nei servizi pubblici; si obbligano peraltro le radio a rispettare una quota minima di programmazione in lingua del 40%. Nulla di cui stupirci, diremmo: la fierezza (o lo sciovinismo?) dei Francesi è ben nota. Ma luoghi comuni a parte, dopo più di vent’anni dalla promulgazione della legge, che insegnamenti trarne? La strategia francese è riuscita realmente ad evitare il contagio da mobus anglicus senza perdere il treno della competizione globale?
Secondo un rapporto dell’ EF EPI (2), la Francia si posiziona 23ª in Europa per competenze in lingua inglese (l’Italia 26ª ), e l’inglese resta di gran lunga il primo idioma straniero studiato nelle scuole del paese. Negli uffici di lavoro (vivo in Francia da un po’ di anni per poterlo affermare), l’inglese è comunemente utilizzato coi non francofoni; e non è difficile farsi capire in giro se lo si mastica un po’. Se il globish è il linguaggio dell’economia globale, i francesi non si sono di certo ritirati dalla competizione mondiale in nome di un orgoglio linguistico.
Senza rientrare nel merito dell’inglese quale supposta lingua franca, ciò che intento mettere qui in luce è l’approccio, diverso rispetto all’Italia, che i Francesi hanno con gli inglesismi; approccio perfettibile certo, ma meno polemico, più pratico, e direi anche più sano di quello italiano. E poi soprattutto esiste un dibattito. A questo fine, vorrei condividere la mia esperienza personale nella città “Lumière”.
Ho lavorato sempre per grandi multinazionali, anche straniere, ed al di fuori di casi specifici, tutto o quasi resta in francese. A cominciare dal contratto di lavoro, in cui anche l’inglesissimo “IT=information technology” ( avrete dedotto che mi occupo di informatica) diventa “T I ”( e non Ti Ai!)=Technologies de l’Information. L’organigramma è in lingua ( PDG, président directeur genéral, RH, resources humaines, CHEF/DIRECTEUR,…etc), così come la terminologia tecnica, che nel mio immaginario era solo ed esclusivamente in inglese! Oltre ai già noti ordinateur, souris, fichier ( computer, mouse, file), la stragrande maggioranza dei termini ha almeno un equivalente francese, sebbene a volte resti d’uso marginale ( ad esempio planning, harware, byte: rari gli usi del francese). È nella lingua romanza anche il gergo d’ufficio (comité de projet o de direction, compte rendu, visioconférence, courriel). Discorso simile in tutti gli altri settori: dalla moda alla cucina, dall’economia allo sport, passando per la politica ( qui Premier e Lockdown non si dicono).
Retaggio? Stupido protezionismo? Io lo chiamerei piuttosto senso critico, apertura al dibattito, amor proprio e della propria identità culturale-linguistica. Quando un termine nuovo sbarca da un’altra lingua, le accademie, qui, fanno il loro lavoro: propongono RAPIDAMENTE delle alternative (traduzione, neologismo o adattamento), arricchendo così il lessico. Ad ognuno poi di usare liberamente la parola che vuole, come è giusto che sia. Nessuno vieta o vi addita se scrivete “software” al posto di “logiciel”. E se l’inglesismo prende piede, esso troverà posto nelle pagine dei dizionari senza polemiche. Ma fino ad allora, le istituzioni sono nell’obbligo di utilizzare il termine ufficiale riportato dalle accademie, come stabilito dalla citata legge “Toubon”.
Prendiamo il caso di ordinateur. Il dizionario “Larousse” riporta anche la voce computer, giacché di larga diffusione. Stessa sorte per weekend/fin de semaine o challange/défi.
Che conseguenze ha avuto una tale politica sull’economia, la società o, se vogliamo dirlo, il progresso del paese? Di certo non ha offuscato la Francia dalla scena internazionale, tanto sul piano diplomatico che economico. Un esempio? Nonostante qui si dica unicamente“manette” al posto di “joystick” , la parigina “Ubisoft” è tra le prime dieci case di produzione di videogiochi al mondo ( ed al primo posto c’è la cinese “Tencent”…e anche lì non penso che dicano joystick!). E noi italiani che usiamo il termine inglese? A voi la risposta.
Il progresso di un paese (o la modernità se si vuole) non dipende certo dalla lingua parlata! Le competenze non si acquisiscono col chiamarle skills!
Ritornando alla legge “Toubon”, capiamo quindi che l’obiettivo del legislatore non è stato quello di mettere sotto campana il paese censurando i forestierismi (stile Mussolini). Il suo ruolo è stato, ed è ancora, di valorizzare il patrimonio linguistico e culturale francese, aggiornandolo, adattandolo, modernizzandolo; questo anche accogliendo termini “crudi”, senza però subire passivamente qualsiasi novità dal suono inglese. Di fatto nei media, possiamo trovare facilmente termini come cluster, almeno quanto foyer, entrambi sono riportati nei dizionari. Diverso per fake news che , seppur compreso, non spopola quanto il francese infox (da “information toxique”), ragion per cui non è ancora ufficialmente registrato dalle accademie.
Il caso francese non è per forza di cose un modello da seguire, ma permette almeno di riflettere su cosa accade, e non accade, in Italia. Senza una lingua comune, condivisa ( i Greci ci insegnarono già il concetto di Koiné) ed una sua normalizzazione, ognuno si sente libero di importare il forestierismo che vuole, nel significato che crede e dalla lingua che decide. Questa non è democrazia, ma anarchia! Chi capirebbe ad esempio che “public service” non è da intendersi come “servizio pubblico” ma “servizio AL pubblico”, ovvero eventualmente gestito da privati! Ed i malintesi potrebbero essere molteplici..
Difendere la propria lingua, espressione intima della propria identità nazionale, non passa per la negazione dell’altro, per l’oscurantismo culturale; ma nemmeno per il servilismo genuflettente di fronte al minimo fonema d’oltreoceano.
Forse, e sono ancora le nostre radici ad illuminarci, “in medio stat virtus”.
Ciro BOSSA
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*Face è in francese e non in inglese! 🙂
(1)- Legge Toubon, Per maggiori dettagli :https://www.legifrance.gouv.fr/affichTexte.do?cidTexte=LEGITEXT000005616341
(2)- https://www.ef.fr/epi/regions/europe/
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