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Se in passato fu il latino e poi un numero ristretto di lingue (francese, arabo, tedesco, italiano). oggi la lingua universale della scienza è l’inglese: dalle prestigiose riviste scientifiche ai convegni e alle conferenze internazionali si scrive, si legge e si parla in inglese scientifico. Così migliaia di ricercatori in tutto il mondo si misurano quotidianamente con una lingua diversa da quella madre, non senza difficoltà. Assicurarsi la revisione di un articolo scientifico comporta un certo costo, e sono diverse le testimonianze di chi si è visto rifiutare la pubblicazione per via di un inglese poco fluido. Quanto del sapere scientifico viene trascurato o ignorato per problemi linguistici? Un maggiore sforzo di traduzione sarebbe utile o si rischia di perdere pezzi dell’informazione stessa? E quali effetti ha la diffusione dell’inglese scientifico sulla stessa lingua inglese? Di recente ne ha parlato Radio 3 Scienza con due ospiti molto competenti, Maria Luisa Villa, già docente di immunologia all’università degli studi di Milano e accademica della Crusca, e Nicola Nosengo, giornalista scientifico e caporedattore della rivista Nature Italy, la versione in lingua italiana del noto giornale scientifico statunitense. Potete ascoltare qui la puntata.
Certo, il riconoscimento dell’inglese come lingua franca della scienza non ha portato ovunque alle scelte che invece ha fatto l’Italia di limitare per legge l’uso della propria lingua nella ricerca scientifica o di lasciarla escludere dalle aule delle università in quella che sembra una vera politica linguistica contro l’italiano. Altrove non è così e anche il rapporto tra testi scientifici in inglese e in lingua nazionale non è così schiacciante a favore del primo come in Italia. E soprattutto, altrove si riflette sui contro dell’inglese come unica lingua della scienza, accanto agli indubbi benefici di avere una lingua comune.
Da diverso tempo, infatti, all’interno del più ampio dibattito sui limiti degli strumenti e dei metodi della ricerca, esiste una discussione specifica – sviluppata anche nei paesi anglofoni – riguardo alle implicazioni problematiche dell’utilizzo dell’inglese come lingua universale della scienza. La domanda condivisa tra studiosi di diverse discipline è se parti più o meno rilevanti del sapere scientifico siano trascurate o ignorate a causa del loro non essere diffuse in lingua inglese. Ci si chiede inoltre quanto di quel sapere si potrebbe eventualmente condividere a fronte di un maggiore sforzo di traduzione e quanto invece sia, in alcuni casi, intraducibile se non a costo di perdere un pezzo dell’informazione stessa.
La mancanza di capacità linguistiche influisce spesso sulle opportunità di istruzione e di carriera per i non madrelingua inglese, che costituiscono il 95 per cento della popolazione mondiale, fanno notare gli autori dell’articolo. E spesso il compito di superare quelle barriere linguistiche è lasciato ai singoli individui, che possono farlo soltanto attraverso i propri sforzi e investimenti, a seconda delle loro possibilità. Tra le misure ritenute dagli autori dell’articolo potenzialmente utili a ridurre il problema delle barriere linguistiche ci sono la diffusione dei risultati delle ricerche in più lingue e l’utilizzo di conoscenze diffuse in lingue diverse dall’inglese.
Le barriere linguistiche nella ricerca ostacolano il trasferimento di conoscenze e determinano lacune e distorsioni nel sapere condiviso. Questo si riflette in un maggiore orientamento della comunità scientifica verso lavori pubblicati in inglese e, in alcuni casi, in una rappresentazione eccessiva di determinati risultati e una mancata rappresentazione di altri.
Alcuni studiosi non vedono un problema nel fatto che l’inglese sia la lingua della scienza e, in termini generali, ritengono anzi che l’esistenza di una lingua comune sia un bene per la ricerca. Secondo Scott Montgomery, geologo della University of Washington e autore del libro Does Science Need a Global Language?, l’uso di un unico linguaggio condiviso è essenziale non soltanto per ragioni di efficienza ma di collaborazione nel mondo accademico. Montgomery ha detto al Guardian che «l’apprendimento dell’inglese dovrebbe essere qualcosa di simile all’apprendimento della matematica, per gli scienziati».
Come osservato dallo storico della Princeton University Michael Gordin, la traduzione dei risultati della ricerca in una lingua più diffusa è una pratica abituale e presente da millenni nella storia della scienza. Come raccontato da Gordin in un articolo pubblicato nel 2015 sulla rivista Aeon, per un lungo periodo compreso tra il XV e il XVII secolo gli scienziati condussero le loro ricerche utilizzando sostanzialmente due lingue: la loro lingua madre, quando discutevano del loro lavoro nelle conversazioni, e il latino, quando scrivevano testi ufficiali e comunicavano con scienziati di altri paesi. Il latino non era la lingua madre di alcuna nazione specifica, e gli studiosi di tutte le società europee potevano farne un uso che era concretamente percepito come un uso tra pari: «Un veicolo adatto per affermazioni sulla natura universale», non una lingua «posseduta» da un qualche paese. Le successive evoluzioni della Rivoluzione scientifica portarono molti scienziati a cominciare a mettere da parte il latino e preferire la lingua dei loro rispettivi paesi, nel tentativo di raggiungere un «pubblico più locale» e ottenere più facilmente patrocinio e sostegno, scrive Gordin. Ma questo cambiamento rese progressivamente più difficile per gli scienziati comprendere il lavoro svolto al di fuori dei loro paesi, portando alla formazione di barriere linguistiche all’interno della comunità scientifica.
La preminenza militare, economica e poi scientifica degli Stati Uniti d’America dopo la Seconda guerra mondiale portarono l’inglese a imporsi come lingua franca anche della scienza. Con il passare del tempo, i vocabolari scientifici di molte lingue non sono riusciti a tenere il passo di scoperte e nuovi sviluppi della ricerca in determinati contesti accademici. Facendo l’esempio della Svezia, che da decenni favorisce l’utilizzo dell’inglese come lingua primaria nell’istruzione scientifica di livello universitario, il linguista australiano Joe Lo Bianco, docente alla University of Melbourne ed ex presidente dell’Australian Academy of the Humanities, osservò in uno studio nel 2007 il fenomeno del «progressivo deterioramento delle competenze linguistiche in svedese nei discorsi di alto livello». Lo Bianco definì «collasso del dominio» quel caso in cui una lingua smetta di adattarsi ai cambiamenti in un determinato campo, al punto da cessare del tutto di essere un mezzo di comunicazione efficace in quel particolare dominio.
Un modo di rendere le conoscenze scientifiche meno inaccessibili per le persone che non conoscono l’inglese, secondo lo storico della scienza Gordin, potrebbe essere l’estensione dell’uso della traduzione automatica. Oppure potrebbe essere utile finanziare grandi organizzazioni scientifiche affinché si occupino della traduzione in una lingua universale di testi scientifici diffusi nelle varie lingue locali. Idealmente, per Gordin, sarebbe vantaggioso un contesto internazionale in cui, per esempio, cinese, inglese e spagnolo siano considerate le tre lingue della scienza – e ci si aspetti quindi che gli scienziati ne abbiano una conoscenza passiva – così come inglese, francese e tedesco rappresentavano la maggior parte della comunicazione della scienza nel XIX secolo.
Valeria Ramírez Castañeda, una biologa colombiana di madrelingua spagnola della University of California, Berkeley, che conduce studi in scienze biologiche in Amazzonia, scrisse in un articolo pubblicato nel 2020 su PLOS One che la Colombia è uno tra i paesi con minore conoscenza dell’inglese al mondo e che la necessità di pubblicare articoli scientifici in inglese comporta per molte ricercatrici e ricercatori colombiani una spesa economica rilevante. Stando ai prezzi dei servizi di traduzione ed editing in inglese presi in considerazione da Castañeda, il costo per un singolo articolo comporta una spesa compresa tra un quarto e metà dello stipendio mensile di un dottorato in Colombia.
Come peraltro indirettamente confermato da Castañeda al Guardian, esistono infine problemi di incommensurabilità tra lingue diverse e limiti intrinseci di traducibilità di alcune conoscenze prodotte in parti diverse del mondo. Problemi che sono stati peraltro oggetto di un esteso dibattito e di influenti studi di linguistica e di antropologia fin dai primi decenni del Novecento.
Castañeda ha detto che nel lavoro che conduce con le comunità indigene in Amazzonia, per esempio, si misura con lingue locali che in molti casi non hanno una singola parola per definire le specie animali oggetto dei suoi studi. «Per me è impossibile tradurre tutto quanto in inglese», ha detto Castañeda, affermando la necessità che la scienza sia presentata in più lingue e che alle persone sia data la possibilità di fare scienza nella propria lingua madre.
Come detto all’Atlantic nel 2015 dall’esperto di comunicazione della scienza indiano Sean Perera, ricercatore alla Australian National University, a Canberra, fino a quando l’inglese rimarrà la lingua egemonica della scienza, costringere gli scienziati di altre origini culturali a esprimersi in una lingua unica comporterà «il grande costo di perdere i loro modi unici di comunicare le idee». Con il rischio che, nel tempo, quei modi di comprendere il mondo scompaiano del tutto.
Utilizzare soltanto una lingua come linguaggio universale della scienza, concludeva l’Atlantic, significa selezionare un solo modo di guardare al mondo, un modo molto specifico e «che può rendere facile scartare altri tipi di informazioni classificandole come nient’altro che folclore». Esiste invece una crescente consapevolezza del fatto che la conoscenza non prodotta attraverso i metodi di ricerca accademici tradizionali possa essere di grande valore per la comunità scientifica.
Speriamo che anche in Italia il dibattito sulla necessità di non perdere la capacità dell’italiano di esprimere il sapere tecnico e scientifico, che possiede fin dai tempi di Galileo, si sviluppi presto. Altrimenti la nostra lingua rischia di regredire a un dialetto che, per quanto prestigioso sotto il profilo letterario, sarà incapace di esprimere una parte essenziale della cultura alta. Con conseguenze potenzialmente disastrose.
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Fonte: ilPost – Copertina: Pixabay
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