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Il tema della Ventiduesima Settimana della lingua italiana nel mondo che si è svolta dal 17 al 23 ottobre era dedicato all’italiano e i giovani, e in questa occasione è uscito un volume dell’Accademia della Crusca, pubblicato da goWare, che fa il punto sulla situazione attraverso una serie di interventi di specialisti che hanno affrontato l’argomento da diversi punti di vista. Curato da Annalisa Nesi, L’italiano e i giovani. Come scusa? Non ti followo, riporta molti nuovi dati interessanti, come quelli tratti da Bella ci! un glossario di oltre 800 parole realizzato degli studenti di Scienze della comunicazione dell’Università LUMSA di Roma, spiegato e divulgato da Patrizia Bertini Malgarini e Marzia Caria nel capitolo “Fa la bella vita però finge / io penso soltanto tu sia cringe cringe”.
Tra anglicismi come appunto “cringe”, scorciamenti come “bro” e “sis” (rispettivamente da “brother e sister”), e infinite ibridazioni a base inglese (shottino/cicchetto, drummino/sigaretta, winnare/vincere…), quello che emerge è che la maggior parte delle parole arriva dall’inglese. Sorprende per esempio che, a fronte di centinaia di anglicismi, siano menzionati solo 3 nipponismi (anime, manga, hentai) peraltro non nuovissimi, ma in auge dagli anni Novanta, quando i cartoni animati giapponesi hanno rappresentato un forte punto di riferimento giovanile persino nel modo di abbigliarsi.
La presenza dell’inglese come componente dominante che sembra travolgere e oscurare tutto il resto è sottolineata in tutti i contributi. Michele Cortelazzo, in “Una nuova fase della storia del lessico giovanile”, nota che se i linguaggi giovanili dei decenni passati – sintetizzati in una storia distinta in 7 fasi – erano caratterizzati da una forte creatività, oggi si registra “un’interruzione della componente innovante” e la lingua dei giovani “ha perso gran parte della varietà (sociale e geografica) che lo caratterizzava per imboccare vie più standardizzate e basate su modelli trasmessi attraverso i social network”, dove l’inglese sembra essere quasi l’unico punto di riferimento, visto che i 9 esempi citati dallo studioso arrivano tutti da lì: “cringe”, “crush”, “millennial”, “pov”, “trend”, “bando” (= casa abbandonata da “abandoned house”), “droppare”, “floppare” e “stitchare”.
Un tempo il linguaggio giovanile, pur avendo importanti legami con l’inglese (l’esercito del surf, i jeans, gli hippy, i freak, gli yuppie…) produceva innumerevoli neologie strutturalmente italiane (spinello e spino, ciospo, limonare, paccare, sfitinzia o paninaro) che spesso erano legate al territorio e avevano le loro differenze regionali. Arrivavano talvolta anche dal gergo delle caserme o della naia (quando era obbligatoria almeno per la popolazione maschile), come burba o spina nel senso di novellino/inesperto, mentre oggi un neofita imbranato è un “newbie” (forse da new boy = ultimo arrivato) che proviene dal mondo dei videogiochi (anzi dal “gaming”), e viene anche italianizzato in “niubbo” e declinato in molte varianti (newb, nabbo, niubie, niubbone, nabbone, nabbazzo…).
Questo passaggio dalla dimensione dell’aggregazione sociale radicata sul territorio alla nuova epoca dei social – virtuale e anglicizzata – è ben evidenziata da Luca Bellone in “Dalla strada a TikTok: sulle tracce del linguaggio giovanile contemporaneo”, che come Cortelazzo rileva una “stagnazione” della creatività del linguaggio giovanile che pesca soprattutto dall’inglese. Lo studioso riporta dei dati molti interessanti che ne fanno comprendere le cause: “Oltre il 98% degli informatori di età compresa tra i 16 e i 20 anni è quotidianamente connesso e dichiara di trascorrere almeno 5 ore al giorno all’interno degli spazi offerti dai social network; i sistemi più utilizzati sono WhatsApp e Instagram (la loro percentuale di impiego supera abbondantemente il 90% del campione), seguiti da TikTok (usato dal 75% circa dei ragazzi, un dato destinato in proiezione futura all’incremento) e da YouTube (poco meno del 60%).”
Il virtuale – ormai inscindibile dall’inglese – è dunque il nuovo mondo che nutre e forma le nuove generazioni attraverso la musica, il cinema, le serie tv, i videogiochi, le piattaforme sociali che generano i tormentoni che oggi diventano “meme” virali, e insieme alla lingua inglese veicolano anche punti di riferimento e concetti legati alla cultura d’oltreoceano. Questo legame con il virtuale internazionale spiega non solo il modesto apporto delle parole di provenienza dialettale o espressione della geografia italiana, ma anche la riduzione del “gergo effimero” e la maggiore presenza delle parole di lunga durata.
Il “giovanilese” è infatti sempre stato caratterizzato dal suo essere soprattutto passeggero: le nuove generazioni abbandonavano il linguaggio delle precedenti per creare espressioni proprie, ma anche questi vocaboli generazionali venivano in seguito dimenticati dagli stessi parlanti, una volta divenuti adulti. In questo continuo rinnovarsi lessicale solo poche parole godevano di una lunga durata inter-generazionale, o passavano dall’ambito giovanile alla lingua comune. Ma oggi accade molto più spesso e il lessico soprattutto anglicizzato diventa qualcosa di più duraturo e percepito come appartenente a una comunità ben più ampia di quella territoriale, come qualcosa di internazionale che si rivela più stabile.
L’obsolescenza si trova invece in settori come quello del linguaggio video-ludico, tra parole come “camperone”, “killare” o “pushare”… che però è molto specialistico più che essere patrimonio di tutti i giovani. Lo spiega bene Lucia Francalanci in “Il gergo del gaming online: tra tradizione e innovazione”, mentre sull’influsso dell’inglese che arriva dalla musica ci sono i capitoli di Lorenzo Coveri: “Cantare giovane, parlare (e scrivere) giovane. Sulle tracce dei linguaggi giovanili nella canzone italiana recente” e di Luisa di Valvasone: “Mi sogno in un posto in cui mi sopporto. Indagini semantiche e lessicali dall’album X2 di Sick Luke”. Entrambi i contributi mettono in luce che tra hip-hop, rap e trap, la musica italiana è più ascoltata rispetto a quella inglese, tuttavia il punto di riferimento è soprattutto quello statunitense e anche il gergo musicale italiano ne risente, attraverso i soliti anglicismi non adattati e le tante ibridazioni da “flexare” (da “to flex” = flettere, “ostentare la propria situazione economica”) a “boostare”, “bombare”, “cringiare”, “fightare”, “friendzonare”, “nerdare”…
La pubblicazione include anche qualche altro tema, per esempio la lingua dei testi destinati ai giovani, oltre a quelli da loro prodotti, ma l’unica riflessione sul fatto se l’overdose di inglese rappresenti un arricchimento o un impoverimento si trova nel pezzo di Cristiana De Santis, “Le giovani parole. Insegnare italiano, oggi” che cita Francesco Sabatini e Gian Luigi Beccaria a proposito del rischio delle attuali politiche linguistiche per la promozione dell’inglese che tendono a sacrificare la dimensione della creatività individuale e della crescita personale in nome di un mondo globalizzato che è in conflitto con le comunità territoriali. Per il resto il tratto comune degli interventi del libro segue il consolidato atteggiamento descrittivo dei linguisti, senza alcuna volontà di essere prescrittivi e senza proferire giudizi, con un approccio che si limita a registrare e osservare ciò che sta accadendo in modo asettico.
Qualche considerazione personale
Se nel complesso questo lavoro è molto ricco di dati, analisi e spunti, ci sono due aspetti che a mio avviso sono stati trascurati e che meriterebbero ulteriori analisi e qualche giudizio.
Il primo riguarda la quantificazione dell’interferenza dell’inglese nel giovanilese degli anni Venti del nuovo Millennio soprattutto in un confronto con il linguaggio giovanile degli scorsi decenni.
Kevin De Vecchis, in “«Come dicono i giovani». La percezione del linguaggio giovanile in rete” fornisce qualche dato molto significativo che riguarda un corpus di 398 occorrenze apparse su Twitter nel periodo compreso tra il 1° gennaio 2021 e il 1° aprile 2022. Su 122 forme italiane “alcune delle quali calcate sul modello inglese (come vibrazioni positive, dall’inglese good vibes)” registra ben “74 prestiti integrali, non adattati, dall’inglese”. Questi anglicismi crudi rappresentano dunque più della metà delle voci, e se si aggiungono anche i calchi e le parole ibride e italianizzate, la presenza dell’inglese rivela tutto il suo ingombro. Se poi si analizzano le cose più nel dettaglio, ci sono ben 18 forme verbali ibride (come “blessare” o “lovvare”) e 3 aggettivi (“basato”, “ghostato”, “scriptato”), oltre ad addirittura 13 espressioni fisse che introducono “pezzi” di inglese più complessi di un singolo vocabolo, e sembrano più una testimonianza di enunciazioni mistilingue che si fanno strada nell’italiano, per esempio “frasi semplici (fight me), complesse (per es. prove me I’m wrong), esclamative (what a time to be alive) o anche sintagmi verbali come per es. is over ‘è finito’, che viene unito a diversi soggetti.” A queste si possono aggiungere locuzioni avverbiali come “too much o l’alfanumerico 2l8 ossia too late, visto che la pronuncia inglese di 2 è simile a too e quella di 8 a ate in late”, e circolano persino delle forme verbali come “fly down” e “to blow up”.
Questi dati e questi esempi segnano un cambiamento nella lingua nuovo e profondo, un vero e proprio salto che si può leggere come un’interferenza dell’inglese che va oltre i singoli prestiti e che non mi pare fosse rintracciabile nel giovanilese di altri tempi non solo da un punto di vista quantitativo ma anche qualitativo. E da qui si potrebbe passare a un altro aspetto che andrebbe a mio parere indagato con altrettanta dovizia, e cioè il rapporto tra l’anglicizzazione del linguaggio giovanile e quello della lingua italiana più in generale. Se tutti gli autori del libro registrano che l’inglese è la componente più eclatante, va detto che questo fenomeno non riguarda solo la lingua dei giovani, ma si inserisce in una tendenza altrettanto forte che riguarda tutti gli altri ambiti dell’italiano. Nell’informatica la nostra lingua sembra aver perso la capacità di esprimere le cose senza la stampella dell’inglese, e lo stesso avviene nel linguaggio aziendale e lavorativo, in quello della tecnologia, mentre quello giornalistico è una delle principali fonti di anglicismi, così come accade negli ambiti dello sport, della politica, della moda, della cucina e in sempre più settori.
“L’anglofilia digitale delle ultime generazioni” analizzata da Bellone in cui “il ricorso all’anglicismo marca (…) «il senso di appartenenza del gruppo a un più vasto universo
giovanile, di dimensioni sovranazionali»” non si limita al mondo giovanile. È ormai la nostra intera classe dirigente di giornalisti, intellettuali, politici, imprenditori, formatori, scienziati e via dicendo che attraverso il ricorso all’inglese (e agli pseudoanglicismi, da “caregiver” a “navigator”) si eleva e si identifica con un linguaggio apparentemente internazionale, ma che il più delle volte è tipicamente italiano (si pensi a “lockdown”, “smart working” o “green pass”), visto che spesso non si ritrova affatto in Francia o Spagna (dove al posto di “lockdown” si parla di “confinamento”) e nemmeno nei Paesi anglofili (dove “smart working” e “green pass” non sono affatto in uso).
Insomma, se il linguaggio dei giovani è in una fase di stagnazione, la lingua italiana, nei suoi ambiti di settore, ma anche e nella sua complessità, non se la passa meglio. Dalle marche di dizionari come il Devoto Oli o lo Zingarelli, risulta che più della metà dei neologismi del nuovo Millennio è in inglese crudo, oppure è fatto di ibridazioni e in misura molto minore di adattamenti e di calchi e altre parole dall’etimo inglese. Se il giovanilese è il risultato di un un mondo globalizzato che coincide con l’americanizzazione delle piattaforme sociali, dei videogiochi, dei prodotti culturali cinematografici, televisivi o musicali… lo stesso si può dire della lingua e della cultura degli adulti e dei professori, che si forma ormai sempre di più solo su fonti inglesi e usa un linguaggio anglicizzato che proviene dall’Europa, dall’economia, dalle tecno-scienze, dall’imprenditoria… in un cambio di paradigma dove l’abbandono dell’italiano è sempre più diffuso e, dai singoli prestiti, ci si avvia verso una lingua ibrida che ha ormai un nome: itanglese.
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